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Cartella N. 5 - Natale 1999: Vittorio Sgarbi / Roberto Stelluti: "La fine dell'estate"

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Saggi e assaggi di Leonardo Sciascia nelle Arti Figurative

Ha detto recentemente Günter Grass, ricordando Diderot, che il nostro tempo avrebbe bisogno di “Illuminismo”, un Illuminismo come categoria dello spirito e non come categoria storica. Ho pensato alla situazione italiana in balìa di emozioni e di esaltazioni, arrivando alla conclusione che gli italiani avrebbero ancora bisogno di uomini come Leonardo Sciascia. Perché nessun altro intellettuale italiano degli ultimi cinquant’anni potrebbe dirsi più illuminista, più “diderotiano” di Sciascia.

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Titolo: La fine dell'estate

Autore: Roberto Stelluti

Testo di: Vittorio Sgarbi

 

 

Misure Lastra: cm 26x20


Era proprio Sciascia ad affermare, quando gli si chiedeva se si ritenesse progressista, che era progressista rispetto a ciò che andava male e conservatore di ciò che andava bene. Una felice definizione di illuminista che si distingue da certa facile e vuota mitologia del progressismo. Sciascia ha sempre dimostrato la propria distanza anche dagli slogan e dai luoghi comuni conformistici, dai clan di potere. Un formidabile senso di responsabilità del ruolo di intellettuale che è costato a Sciascia anche accuse infamanti – valga per tutte quella incredibile di “filo-mafioso” - da parte di tanti furbi che parlavano in nome della verità rivelata; un senso di responsabilità civile che mai come oggi sembra estraneo ai nostri intellettuali rimasti patetiche “pagliette”, come nei tempi descritti da Sciascia nel brillante saggio-racconto Invenzione di una prefettura.
La citazione di Invenzione di una prefettura è pertinente. Si può dire che dall’occasione della presentazione di quel libro sulle ritrovate pitture di Duilio Cambellotti derivano alcune mie informazioni sulle conoscenze artistiche e sul metodo critico di Sciascia. Non ho dubbi che Sciascia si interessasse all’arte, ma era tale la sua chiarezza, la sua razionalissima coscienza di sé, il suo totale riconoscimento nella “missione” letteraria, da indurlo a saggia discrezione nell’affrontare un tema del quale non si doveva sentire evidentemente specialista.
Ho conosciuto Sciascia assieme a mia sorella, editor della Bompiani, e direttamente da lui ho saputo che aveva letto alcuni miei saggi di storia dell’arte, a testimonianza di un interesse per la materia. Ricordo la simpatia che mi riservò, subito ricambiata e ricordo anche che un giorno mi affidò alcune annate di una rivista dalla raffinata veste grafica, “Fiammetta”, che aveva comprato in una libreria antiquaria; tanto bella da meritare subito una ripresa sulla rivista “FMR”.
D’altronde, quando ne aveva l’occasione Sciascia non mancava di dare testimonianze sugli artisti contemporanei. So del suo apprezzamento per l’arte di Roberto Stelluti, sottile incisore e perlustratore di paesaggi segreti. Sciascia capì il valore di questo incisore isolato, solitario a Fabriano, ma che è con noi, con le nostre ansie e le nostre malinconie come era con lui. Ricordo anche illuminanti riflessioni sulla fotografia, notoriamente cara anche ad altri scrittori siciliani (Bufalino, soprattutto), presentando Ferdinando Scianna.
Nel racconto Invenzione di una prefettura, sull’istituzione della Provincia di Ragusa durante il ventennio fascista, l’arte svolge un ruolo non dominante, ma comunque importante. Protagonista è il variegato panorama umano che si definisce attorno alla nascita della Provincia di Ragusa, promossa dal regime per i meriti acquisiti dalla città iblea nell’affermazione del fascismo in Sicilia. Un panorama affrontato con il piglio analitico dello storico, ricco di puntigliosi scrupoli documentari, ma anche con la sagacia ironica del narratore che attraverso l’applicazione conoscitiva della ragione arriva a vedere quasi un fondo di fatalismo (“il cambiar tutto per non cambiar nulla, linea costante della storia italiana vista da Manzoni, certificata da De Roberto, celebrata da Lampedusa…”), di “eterno ritorno” nelle cose solo incidentalmente siciliane. E’ facile accorgersi come i tipi e gli intrecci della commedia ragusana siano tutt’altro che esclusivi della provincia sicula durante l’epoca fascista, rispondendo a caratteri che si possono allargare a tutta l’Italia e a tempi ben più recenti di quelli: ci sono gli idealisti generosi e ingenui (Totò Giurato e Totò Battaglia), gli “utili idioti” sempre pronti a battere la strada per i vantaggi altrui; c’è il potente opportunista (Pippo Pennavaria), scalatore sociale che esibisce capacità acrobatiche nello stare comunque a galla; c’è l’alta e rozza borghesia dei “proprietari terrieri, degli industriali del caciocavallo, dei soci del circolo dei galantuomini … che non avevano più nulla da conservare; c’è la solita pletora di portaborse pronti a salire sul carro dei vincitori, i più attenti a rinnegare ogni responsabilità passata; ci sono infine gli intellettuali dannunziani da salotto, le già nominate “pagliette”, a concludere un quadretto folcloristico i cui accenti rimandano dichiaratamente a Brancati. Di questa commedia locale il Palazzo della Prefettura (1929-1933), su progetto dell’architetto Ugo Tarchi, avrebbe dovuto sancire la rappresentazione più ufficiale e imperitura. Le sale di rappresentanza, destinate ai “ricevimenti per le feste dello Statuto e per il genetliaco del re, per il Capodanno, per i balli in onore delle Forze Armate”, vengono infatti decorate da un maestro del primo Modernismo italiano, il celebre Duilio Cambellotti. Per avere Cambellotti, a tutti i costi, Pennavaria prepara un concorso pubblico “truccato”. I dipinti del Cambellotti vennero realizzati a tempera e non a “buon fresco”, riuscendo il pittore a convincere lo sprovveduto Pennavaria che con tale tecnica sarebbero durate più a lungo; è evidente il bluff dell’artista, poco propenso a cimentarsi con le fatiche di un affresco eseguito secondo tradizione (sulla calce fresca, dunque con un lavoro continuativo molto intenso), che approfitta dell’atavica e ancora attualissima ignoranza in materia artistica dei nostri amministratori per propinare un surrogato di una tecnica certamente più appropriata per le decorazioni murarie.
Nel considerare le pitture ragusane del Cambellotti, Sciascia si astiene da giudizi tecnici. Esprime a riguardo riflessioni da “uomo d’intelligenza” che esulano dall’analisi stilistica o espressiva, esulano dall’ambito ristretto e specialistico dello specifico autore, ma che allargano il discorso a riflessioni generali che insistono sull’essere le pitture lo specchio di una determinata condizione storica; una condizione che è sempre più complessa e articolata di quanto certi facili massimalismi vorrebbero, di quanto certa visione del fascismo indurrebbe a credere: “Cambellotti non era più fascista di quanto ogni altro artista, in quel periodo, lo fosse; e forse anzi lo era di meno, quel che al fascismo lo legava consistendo principalmente nei temi della romanità e delle bonifiche maremmane: temi non inventati dal fascismo, carducciani piuttosto, e intinto di socialismo il secondo. Quel che ancora oggi ci fa apparire ottima la scelta è il suo non abborracciare la perizia e finitezza del suo lavoro, il suo prenderlo sul serio anche là dove i desideri della committenza non riscuotevano sentimento e ispirazione. Volevano, nella sala di ricevimento, pitture che celebrassero fatti e fasti nazionali e locali del fascismo, dall’interventismo all’impero: cercò di ottenere che quella celebrazione la si figurasse con fatti, allusioni e simboli della storia romana; non riuscì a convincere, ma quel che gli altri volevano e lui non voleva lo fece nel modo migliore, con grande eleganza, con eccellente mestiere… ci basta far qualche passo e varcare le soglie della Sala del Biliardo per risentire quei vent’anni con tutta l’indignazione che la memoria storica e la memoria personale in noi comportano. Sono pitture di due artisti siciliani non ignobili in quanto altro hanno fatto -Pippo Rizzo e Gino Morici - ma si sente che hanno svolto il tema loro assegnato dell’esaltazione e glorificazione del fascismo, del suo vitalismo, delle sue conquiste, per rispondere abbondantemente alle aspettative e al gusto che ritenevano fosse della committenza…”.
Quando ho visto le pitture di Cambellotti a Ragusa, chiamato da Sciascia, mi sono accorto che il “non specialista” Sciascia aveva capito perfettamente. Si era accorto, cioè, di cose che la sua formazione non specialistica poteva non essere in grado di leggere direttamente nella forma delle pitture, ma alle quali era arrivato ugualmente: il raffinato Cambellotti apparteneva culturalmente a una stagione diversa da quella del fascismo, quella del Liberty che in Italia potrebbe essere definita del “modernismo dannunziano”, trovando notevoli difficoltà ad adeguarsi a ideali estetici che stavano andando in direzione dei canoni neo-latini e monumentali sostenuti da Sironi o dai suoi allievi. Sciascia prudente e acuto lettore dell’arte, dunque, ma che subito riprende i panni del grande narratore quando accompagna l’interpretazione delle pitture a un nuovo aneddoto brancatiano, ragione del loro lungo abbandono durante il Dopoguerra: “Come avevano fatto di tutto perché Cambellotti li ritraesse, primogeniti nel primogenito fascismo ibleo e siciliano, nel saluto e nell’osanna al duce, ora il più assillante desiderio era che le loro immagini scomparissero, scalpellate o almeno scialbate. Ma meglio scalpellate: ché a dargli di calce o di colore c’era pericolo che riaffiorassero; così come capitò a quell’avvocato che aveva fatto ricoprire, nel suo ritratto di presidente dell’ordine, il fascio littorio che si teneva accanto, e si sentì un giorno telefonare dall’usciere la notizia che il fascio era ritornato”.

Vittorio Sgarbi

 

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA


Roberto Stelluti è nato il 13 settembre 1951 a Fabriano, dove vive e lavora. Dal 1970 ha partecipato alle più importanti rassegne nazionali della grafica. Tra le presenze più importanti ricordiamo: Premio <<Omaggio a M. Mazzacurati>> (Alba Adriatica,1971), III Biennale dell’Incisione Italiana (Cittadella, Padova, 1979), II Biennale d’Incisione <<Alberto Martini>> (Oderzo,1990), <<VII Triennale dell’Incisione>> (Museo della Permanente,Milano,1994) ,<< Dalla Traccia al Segno. Incisori del Novecento dalle Marche>> (Mole Vanvitelliana,Ancona,1994), <<13° Saga>> (Parigi Expo,1999).Si sono interessati al suo lavoro studiosi e storici dell’arte come F. Clerici, L. Sciascia , G. Soavi, V. Volpini, G. Zampa, F. Zeri.

 

Non so quanti siano oggi, in Italia, gli acquafortisti veri (Baudelaire direbbe “gli acquafortisti nati”). Non molti, pare…. Di Roberto Stelluti, fino a sei mesi fa, non sapevo nulla. E’ stato ad Agugliano, appunto alla galleria “L’incontro”, che l’ho scoperto. Sfogliando le cartelle che c’erano intorno, mi colpì un “sottobosco” in acquaforte. Alquanto decorativo ma, con tutti i sacramenti, acquaforte: di acquafortista vero, di acquafortista nato.

Leonardo Sciascia

L’arte di Roberto Stelluti, a differenza di molti suoi contemporanei, non abbandona la strada maestra della pura incisione. Non s’industria con sistemi di riproduzione ove l’iniqua esigenza del mercato pretende la presenza del colore. La strada percorsa dall’artista di Fabriano è quella tracciata dai maestri d’un tempo. Col solo graffio d’un ago sulla cera riuscivano a oscurare o illuminare l’immagine.

Fabrizio Clerici

E’ raro che in queste immagini si presenti la figura umana; essa è piuttosto implicita nei sedimenti, nelle stratificazioni lasciate, come un taglio geologico in quelle splendide testimonianze del tempo passato che sono L’armadio realista (1978), Omaggio a Giorgio Morandi e Oggetti nello studio ,ambedue del 1980….Lascio ad altri il commento tecnico e formale dell’opera di Roberto Stelluti, che per me costituisce un’esperienza di rara profondità, di sottile, poetica suggestione.

Federico Zeri

 

 

COLOPHON

L’acquaforte originale contenuta in questa cartella, quinta della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte di cm 26 x 20 è stata impressa a mano dallo stesso artista in Fabriano, su carta Magnani delle Cartiere Magnani Pescia su fondino incollato in 100 esemplari , 80 in numeri arabi, destinati ai Soci , 10 in numeri romani , e 10 prove d’autore riservate all'artista.

 

 


Cartella N. 6 - Natale 2000: Stefano Vilardo / Vincenzo Piazza: "Buriana"

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Indimenticabili quegli anni Sessanta

Era una piacevolissima, e per me vitale, consuetudine quegli incontri pomeridiani con Leonardo Sciascia, mio amico fin dalla prima adolescenza. E, nell’usare l’espressione verbale ‘vitale’, che potrebbe suonare eccessiva ad orecchie sottilmente educate, non esagero affatto, perché la mia sensibilità malata, i dubbi assillanti, le angosce improvvise, gli avvilimenti che ancora mi amano con immutato ardore - tenaci ragnatele che tanto deliziano la mia divertente esistenza- venivano lacerate e ignominiosamente disperse da quegli appuntamenti quotidiani. Lo scambio di pensieri, anche i più segreti, i suoi chiari, attenti giudizi sui fatti del giorno (come dimenticare la concitata, sgomenta, telefonata che avemmo subito dopo la notizia dell’assassinio del presidente Kennedy), sui libri appena letti, sui films già visti o da vedere, sulla mafia, su certi discutibili uomini politici… mi acquietavano, davano certezze, senso ai miei giorni.

buriana.gif 

Titolo: Buriana

Autore: Vincenzo Piazza

Testo di: Stefano Vilardo

Misure lastra: cm 20x20


Ricordo le lunghe passeggiate alla Rotonda, al Redentore, in contrada ‘Piliddi’, a Babbaurra - dalle rocce scoscese vive di fichidindia, di origani, di capperi, rosmarini malve cardi agavi mentastri salvie nepitelle… - non ancora deturpata dal cemento armato, o per la città assolata, deserta, nel primo pomeriggio sonnacchioso, per la lunga pennichella che i nisseni amano fare.
Spesso erano con noi il poeta Alfonso Campanile, figlio del Federale zoppo di brancatiana memoria; il francescano padre Cipriano, francese e innamorato delle teorie di padre Teilhard de Chardin; l’ingegnere D’Angelo, l’onorevole Gino Cortese, il compagno Massimiliano Macaluso dal cuore grande come una casa.
Era dolce la campagna del nisseno in primavera. Le colline, rosse d’argille e di ganghe di zolfo, sconvolte a tratti da lontani, luccicanti agglomerati gessosi dalle enormi groppe seghettate come mostruose pinne di animali preistorici, fremono ancora al vento suadente della nostalgia. I vasti vigneti di uva Italia, coperti dai larghi lenzuoli di plastica, non avevano ancora sostituito la trina vaporosa dei mandorli in fiore, il verde mareggiare delle messi, il sangue acceso delle sulle, dei papaveri. Resistevano ancora e l’orgoglioso pompeggiare dei carrubi, e le oscure luminosità contorte degli ulivi saraceni. Poi…gli enormi marchingegni di scasso e di sconquasso, fecero scempio di tutta quella bellezza.
Certo… molti si arricchirono, ma quanto abbiamo pagato caro quel relativo benessere: Gela, Melilli, Milazzo… e… la piana di Gioia Tauro, un tempo così ricca di giardini, di fresche sorgenti, di una lussureggiante natura, divenuta un deserto di cemento, campo di battaglia delle cosche più aggressive.

Fu in quegli anni che sfruconammo mezza Sicilia in cerca dei suoi tesori più nascosti: musei, scavi archeologici, marmi, statue, cornici, stucchi, ceramiche, scritte, disegni, graffiti dimenticati nei labirinti polverosi di chiese e chiesuole, palazzi aviti e castelli diruti, carceri e sacrestie. Visitammo luoghi impensabili, posti sconosciuti dove aveva perduto, così come si dice, le scarpe nostro Signore.
Ma non di sole chiese e musei eravamo in cerca, ma …anche di poeti scrittori pittori grafici incisori, e… della cucina popolare più saporita: dal macco con i finocchietti di montagna, allo spezzatino di musetto di vitello. Dalla bottarga più briosa, alle scatolette di tonno all’olio estravergine d’oliva di Porticello. Dalle costolette di maiale, deliziosamente ripiene, alla salsiccia, alla gelatina di piedini e di testina di maiale che gustammo a Chiaramonte Gulfi, in una trattoria dove un grande piatto di ceramica, festosamente decorato, gridava ai quattro venti che lì, in quella trattoria, che si apriva in un fiato su una vertiginosa galoppata di monti e di colline, si magnificava il porco. Dalla zuppa di pesce dei fratelli Bandiera nell’isola di Ortigia, alle stigliole di capretto imbottite della sua stessa tenera coratella, che, nella giusta stagione, si possono trovare nelle trattorie di alcuni paesi dell’agrigentino e del nisseno. Dalle collerelle di Delia, profumate di vino e di cannella, ai taralli al limone di Racalmuto, ai cannoli di Piana degli Albanesi, agli immani ravioli, dal cuore di dolcissima ricotta, di Caltanissetta. Immani li definì Camilla Cederna, alla quale ne avevo offerto un assaggio, per la loro spropositata grossezza.
Fu così che conoscemmo il giovanissimo - un ragazzo quasi - pittore Giuseppe Tuccio. Ce ne aveva parlato «ccu la scuma ’nna vucca», con la bava alla bocca, cioè (così come da noi si dice per cantar le lodi di qualcuno), il celebre scultore e ineffabile, divertentissimo maldicente, Marino Mazzacurati. Bruno Caruso ne raccolse battute e battutacce in un delizioso e spassosissimo libretto, ahimè, oramai da tempo esaurito.
Andare da Caltanissetta a Gela negli anni Sessanta, non era una cosa da niente: strade malandate, tornanti da capogiro, buche traditrici che sembravano messe apposta lì, dove il pericolo si faceva più vivo, da qualche maligno burlone che amava divertirsi alle spalle degli intrepidi automedonti che si azzardavano a viaggiare per quelle, che altri ostinati burloni si incaponivano a chiamare strade statali.
E se poi a guidare la Seicento, che ci portava da Caltanissetta a Gela, era un giovin signore, pieno di vita e di temperamento, come l’amico Massimiliano Macaluso, che instancabilmente concionava aiutandosi, nei momenti più intriganti del suo discorso, anche con le mani, lasciando che la Seicento se la sbrigasse da sola su quel budello dissestato, lo spasso era assicurato. Il nostro carissimo Massimiliano era un comunista sfegatato, cocciuto e intransigente, ma attento ai problemi della povera gente, straccioni e pitocchi delle più miserabili periferie dell’universo mondo. Dei cosiddetti perdenti, come oggi, americaneggiando, si usa dire mandando a quel paese i Vangeli e l’altissima poesia del Discorso delle beatitudini.
«Anche lo stesso Cristo era un perdente», amava dire.
Tuccio era un ragazzo d’una estrema timidezza…Gli occhi chiari, innocenti e tristi come quelli dei carusi che andava disegnando. Silenzioso e attento, s’era appallottolato come un riccio impaurito sull’unica poltrona a conchiglia dello studio. Non sarebbe stato facile forzare quella scorza salutare di isolana diffidenza. Ma ci riuscì con facilità estrema Leonardo Sciascia: i suoi silenzi, quei timidi sorrisi appena accennati, conquistarono quello strano, ispido ragazzo. Ma quanta intelligenza sprizzava da quell’impercettibile strizzar d’occhi, da quegli sguardi colmi di umana accettazione, da quelle secche parole che chiarivano, invitavano alla confidenza, apprezzavano quel lavoro, davano atto al Mazzacurati del suo felice giudizio.
Al sovrabbondante e un po’ retorico nostro cicaleccio, Sciascia opponeva lampi di sagace ironia.
Tuccio intanto andava affastellando, con scatti nervosi, cartelle su cartelle e ci mostrava con mani incerte i suoi fogli: pastelli ad olio, chine, crete colorate: una miriade dolorante di bambini e bambine dai volti sghembi, tirati, impauriti, impietosamente sformati dalla fame, dalla miseria.
Per poche lire ne comprammo alcuni, altri il pittore ce li regalò. Nacque così un’amicizia che, con immutata simpatia e stima, dura tuttora.
In quegli anni in casa di Leonardo, conobbi Ferdinando Scianna, giovanissimo fotografo di Bagheria. Un ragazzo che, a differenza di Tuccio, sprizzava gioia e allegria da ogni poro della pelle. La sua voce, festosa e scoppiettante come una ‘maschiata’ (come un rosario di castagnole, cioè) ti intrigava, impetuosamente ti travolgeva, ti rendeva partecipe della sua contentezza. «Quel ragazzo - amava dire Sciascia, sempre felice della sua presenza- da solo riempie una casa».
Fu allora che l’editore De Donato pubblicò Feste religiose in Sicilia; testo di Leonardo Sciascia, fotografie di Ferdinando Scianna. Un libro che aiutò il falchetto a spiccare il volo che lo avrebbe portato a solcare i cieli della terra.
Tra le mie carte, insieme a quelle di Leonardo, conservo con molta cura due lettere di Ferdinando. Una, del 1964, accompagna una sua foto che mi riprende a un balcone di casa mia. Come affatturato il mio sguardo si perde tra una fitta trama di eucalipti e di pini che ancora ricoprono un aspro scoscendimento del monte San Giuliano: il Redentore che domina l’intera vallata sottostante. L’altra -per ringraziarmi del libro Uno stupido scherzo- mi stupì per la sua capacità di percepire emozioni, turbamenti, umori ‘luciferini’ (che altri non avevano manco lontanamente avvertiti) di simpaticamente scarruffare i recessi più segreti della mia mente.
Aveva, Leonardo, la invidiabile facoltà di amicare fra loro le persone a lui più care. E’ così che ho avuto la ventura di diventare amico degli scrittori Melo Freni, Sebastiano Addamo, scomparso, ahimè, da alcuni mesi, e… di Enzo Consolo, l’allora giovane autore de La ferita dell’Aprile, che è per me il suo libro più fresco, più sapido, più divertente e nello stesso tempo dolorosamente consapevole del tragicomico destino che un beffardo demiurgo ci ha riservato. E che lingua frizzante, briosamente barocca, ciancianante come torrente di montagna, usa l’autore per portarci con passo leggero al tragico epilogo.
Allo stesso modo sono diventato amico di Renato Guttuso, di Tono Zancanaro, di Bruno Caruso, di Leonardo Castellani… e… di Vladimir Makuc, l’incisore istriano che amava il paesaggio carsico, il grigiore del pietrame, i colori terrei, argillosi, ferruginosi della sua terra.
Aveva un debole, Leonardo, per gli incisori jugoslavi. Lo divertivano i mostri di Jaki, i muretti a secco di Gliha. Per Jaki curò personalmente uno dei «quaderni di Galleria».
Se alle pareti del mio studio sono attaccate diverse incisioni di Makuc, Jaki, Gliha, lo devo all’amichevole prodigalità di Leonardo.
Indimenticabili quegli anni Sessanta a Caltanissetta. Vi ho conosciuto pittori che avrebbero meritato ben altra fortuna: Santo Marino, Totò Amico, Oscar Carnicelli, Andrea Vizzini, Giuseppe Caldarella, per citarne alcuni a noi più vicini.
Come dimenticare gli inchiostri di Totò Amico: quei cieli di fuoco, quegli ulivi contorti difesi da ghirlande (giurlanni in siciliano) di pietra viva rozzamente intagliata, i muri corrosi dal tempo e dall’incuria dell’uomo. Come dimenticare la violenza espressiva di Oscar Carnicelli, o le agavi carnose e lascive come l’urlo di una oscenità, di Pino Caldarella, o i paesaggi pastosi dai colori accesi di Santo Marino: il sangue dei prati, i tetti sbilenchi delle case, le sue figure dai volti induriti da una fatica trascinata in millenni di arbitrii, e di soprusi, chiuse in una solitudine estrema. Quei volti di donne arati dagli anni e dalle gravidanze indesiderate, serenamente rassegnati.
«La solitudine, una solitudine profonda è nei suoi personaggi, nelle sue figure: la solitudine dell’uomo negli assorti momenti della natura, nei sospesi silenzi; la solitudine che fa serena la mente, acuti i pensieri; la solitudine in cui Lawrence vede l’uomo siciliano acquistare ‘qualcosa della noncuranza ardita dei greci’», come scrisse Leonardo Sciascia in un quaderno di «Galleria» (il n° 60, se non erro) che dedicò al pittore.
Furono gli anni in cui un coraggioso e intraprendente giovane editore, Salvatore Sciascia, con intelligenza e impegno finanziario non indifferente, spingeva la sua Casa Editrice verso traguardi allora inimmaginabili per un’impresa isolana.
La rivista «Galleria» e i suoi quaderni, entrambi diretti da Leonardo Sciascia, erano i suoi fiori all’occhiello.
Nei «Quaderni» avevano già pubblicato Pier Paolo Pasolini, Dal Diario; Angelo Romanò, Un giorno d’estate; Roberto Roversi, Poesie per l’amatore di stampe; Francesco Leonetti, Arlecchinata. «Si profilava così - scrive Sciascia- nei primi ‘quaderni di Galleria’, il gruppo da cui doveva venir fuori la rivista “Officina”, la sola, a conti fatti che abbia avuto un senso e un ruolo nell’Italia soffocata dal grigiore democristiano post 1° Aprile 1948.»
Tre volumetti l’anno d’autori che avrebbero fatto parlare di sé le patrie lettere e le più prestigiose riviste di arti figurative.
Anni in cui «mi pare di aver vissuto - per finire ancora con un pensiero di Leonardo- una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici ?».
A Sciascia, di certo, sarebbe piaciuto il giovane incisore Vincenzo Piazza, che, negli attenti silenzi, nell’azzardo di un sorriso, nella serietà dell’impegno, mi sembra un poco gli somigli.
E certamente gli sarebbero piaciute le sue acqueforti che, per il rigore e la nettezza della pagina ricordano l’urbinate Leonardo Castellani.
Tra luce e ombra, la preziosa morsura dei bianchi, dei grigi, dei neri, su cui spicca la briosa trina degli alberi, i floreali ricordi dei giardini: «La visita», «Oltre il giardino», «La terrazza», «La casa dei Roccaverdina», per ricordarne alcune per me tra le più pregevoli.
Perizia tecnica e fantasia. Poesia, direi, se, con occhi fanciulli, si guardano le acqueforti «Mandorlo in fiore», «La pergola», e l’arioso svolazzare delle lenzuola, la guizzante trama delle saette di «Buriana», la superba acquaforte che arricchisce questa cartella.
«E’ l’impalpabilità il cruccio di Vincenzo Piazza. Nel senso che la visione, peso specifico del sogno, si intride, quasi in un soffio, della realtà», come scrive il poeta Aldo Gerbino - e meglio non si poteva- in «Contro vento», catalogo che accompagna alcune mostre del nostro incisore.

Stefano Vilardo
Cefalù, 30 agosto 2000

 

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA 

Vincenzo Piazza, nato a Catania il 30 marzo 1959, compie gli studi universitari di Architettura a Palermo, dove oggi vive e lavora. L’avvio dell’attività artistica è segnato dall’interesse verso le tecniche dell’incisione che inizia a praticare nel 1985, anno a cui risale la prima delle numerose mostre collettive in varie città italiane e estere. Frequenta quindi i corsi di calcografia e litografia presso l’Accademia Raffaello di Urbino e nel 1987 la sua prima personale viene allestita dalla Galleria Tasso di Bergamo. E’ presente nel «Repertorio degli incisori italiani» del Gabinetto delle Stampe di Bagnacavallo. Ha realizzato edizioni d’arte con INClub, MAVIDA, Il Girasole. Nel 1998 ha ottenuto, alla prima edizione del Premio Leonardo Sciascia amateur d’estampes, la segnalazione della giuria per l’incisione oggi presente in questa cartella.

 

E’ al dio della leggerezza che Vincenzo Piazza sembra costantemente fare omaggio. Nelle sue opere più chiaramente sognate, e perfino in quelle dove cose e luoghi vengono raffigurati con calligrafica precisione, la levità del segno si sposa con un’atmosfera talmente magica da rendere tutto poeticamente irreale.

Remo Palmirani


L’artista è solo, forse per timidezza, forse per misantropia. Sfugge anche all’incontro con sé stesso e si tiene sempre fuori dai suoi scenari. Li osserva, ma si sente che non vuole esserci. Tutto questo rende le sue opere silenziosamente malinconiche e conferisce loro una vena di sottile poesia.

Egisto Bragaglia


…pian piano si è insinuato nelle lastre di Piazza il senso di un magico realismo, di una romantica svagatezza mediterranea che gli ha fatto prima abbandonare qua e là nell’immagine rose, sedie, camici, altri oggetti semplici ma di tono misterioso, poi lo ha spinto a soffiarvi sopra vento, a scompigliarli, per far volare quei personali simboli poetici ve so l’incerto dell’universale comprensione…

Nicola Arnoldo Manfredi

 

COLOPHON

L’acquaforte originale su zinco contenuta in questa cartella, sesta della serie «Omaggio a Leonardo Sciascia», è pubblicata a cura dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte di cm. 20 x 20 è stata impressa su torchio a mano dallo stesso artista, su carta Graphia della Cartiera Sicars in 100 esemplari di cui 90 in numeri arabi, destinati ai Soci, e 10 in numeri romani, riservati all’artista.

Cartella N. 7 - Natale 2001: Roberto Roversi / Nunzio Gulino: "Il Clarino"

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Un (grande) uomo isola

Sciascia, un grande uomo isola, secondo la bella (giusta) definizione di Alfonso Gatto,del 1973, dedicata a Gulino, che ha schegge luminose di segni molto vicine alla scabra, e talvolta lucidissima scrittura di Sciascia (ma vedremo). La prima volta mi chiese se la signora Roversi, moglie a Orsi, capo stazione arrivato a Racalmuto, tempo prima, da Bologna, era per caso mia parente. Sì,era sorella di mio padre.

clarino_300.jpg 

Titolo: Il Clarino

Autore: Nunzio Gulino

Testo di: Roberto Roversi

Misure Lastra: cm 18,7x24,7

 


Ne trasse un sorridente auspicio per il nostro incontro e per una buona amicizia. Poi nel 1954 ebbe la buona attenzione e la grande cortesia di accogliere nella serie di libretti di poesia che si apprestava ad avviare, una mia raccoltina; che uscì affiancata a Paolini e a Romanò. Negli anni seguenti, durante i suoi viaggi sempre più frequenti verso Milano o verso Torino, spesso si fermava per un giorno o anche solo per una mezza giornata a Bologna. Ricordo, a questo proposito, che nel 1965, ritardando l’invio di un suo intervento per “Rendiconti” (la rivista che allora curavo), si scusava ma spiegava di affondare, in quel momento, oltre che nei malanni, nell’inedia; e di essere proprio a terra. Mi ci vorrebbe, precisava, un bel viaggio, lungo, spensierato, e un bel soggiorno a Bologna, città per me straordinariamente riposante. Mi lusingò molto,poi,l’aggiunta che volle dedicarmi, sostenendo che la città, in effetti, si riduceva alla mia libreria antiquaria e alla mia compagnia.
Mi scuso, per queste notazioni certamente troppo personali, se rivisito con la memoria e con i sentimenti, dopo tanto tempo, le vicende di un rapporto che mi fu caro. Ma in sintonia, e in attenta vicinanza culturale con i giovani che erano impegnati intorno alla rivista “Officina”, credo di poter dire si sentisse fin dai primi tempi. Per esempio,nel 1956, rimandandoci in redazione l’ultimo paragrafo della sua nota sulla Resistenza, precisava di non sapere se aveva saputo in qualche modo rispondere al nostro intendimento. Ho trascritto la sua ulteriore annotazione: “comunque, se lo ritenete opportuno, tagliate o aggiungete senza riserve, perché mi pare, in ogni cosa, di trovarmi d’accordo con voi e con “Officina”.

Mi chiedeva anche libri: dal catalogo che la libreria periodicamente distribuiva oppure come ricerca diretta. Ricordo che una volta chiese di ricercare per lui il volume di Solinas su la “Literatura española,siglo XX” di Pedro Salinas,edita a Mexico nel ’41, perché stava curando, con Bodini, la pubblicazione di una “biblioteca mediterranea” di poesie e saggi; e mentre il primo volume era dedicato a Cernuda,il secondo voleva che fosse dedicato a questo poeta.
Quindi un bel rapporto con Sciascia, durato quasi vent’anni, dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’60. Per natale ci scambiavamo,beneaugurando,lui la frutta martorana,io il certosino bolognese,un dolce rustico e locale. Poi la sua progressiva notorietà e autorità,e le vicende politiche turbinose e talvolta devastanti,un poco ci separarono(naturalmente) e lentamente ci allontanarono. Ho parecchie sue lettere non solo di circostanza.
Sempre ci siamo incontrati a Bologna. Fumava come un turco(fumavamo come due turchi)ma con una sobria indolenza,senza avidità(senza avidità di fumo) come corrispondendo al fumo. Talvolta radunavo qualche amico, per il ristorante; poi,anche soli a parlare,in libreria,con la stanza via via piena,appunto,di fumo.
I primi tempi era cauto –non con me né per qualche sospetto o timidezza; ma perché –credo- fosse quello il suo modo, un po’ contratto, di perlustrare il territorio in cui si muoveva. Anche le persone intorno,naturalmente; ma poi,soprattutto,la città, le strade; quella strada; le librerie(quella libreria), la luce(quella luce).
A proposito di luce: l’occhio(l’occhiata) di Sciascia era sibillino(così a me pareva),come tendesse a raccogliere le cose, le parvenze sfumate, le ombre, dai margini della realtà o del campo visivo, per radunarle al centro e lì fermarle per un momento e dare luce e renderle,secondo un proprio avviso, luminose,magari ancor più incisive,insieme all’oggetto principale già individuato. Mi inducono a questa deduzione,e in qualche modo mi confortano,alcune sue lucide scritture in merito alla fotografia,ad esempio.
Il suo modo di guardare(direi,di far filtrare l’immagine)con gli occhi socchiusi e la testa un poco reclinata,quasi a sottrarsi a uno scontro diretto - non per impazienza,ripeto,o per qualche intima incertezza- ma proprio per esercitare, all’inverso, la pazienza del guardare e osservare e accarezzare con lo sguardo/mano, prima di dedurre, concludere un qualche personalissimo giudizio. E quel suo fumare e fumare, era come mettere(secondo me) e collocare l’obbligo della sfumatura in ogni esame diretto di una immagine; una leggerissima nebbia attraverso la quale far filtrare la luce o il riverbero dell’immagine; come a impolverarla appena un poco, insalivarne la lucentezza. Per il fastidio,o la preoccupazione,del troppo di brillantezza, di una brillantezza da riproduzione su carta patinata. Come(ancora) volesse(dovesse)alitare adagio e garbato sul vetro della finestra prima di osservare in dettaglio il panorama- o quel particolare individuato su cui indugiare o tornare a indugiare. Corrispondeva(sempre a mio parere)il suo guardare al suo parlare; che era di tonalità lineare e, benchè chiaro e preciso, di una lentezza di grande armonia, come dire?, un poco arrotolato intorno ad alcune consonanti “musicali”. Non saprei adesso ricordare quali,ma ho nell’orecchio ancora lo svolgersi delle sue parole. Era un bel parlare,ad ogni modo,appena sottosegnato dal regionalismo,ma quieto,torno a ripetere,nel mio ricordo. Un amorevole suono. Tanto che già allora(e anche adesso,senza credere Sciascia un santo di pazienza),già allora pensavo che non fosse capace a contenere ira o violenza o sguaiataggine di sorta e che anche le sue parole più dure non fossero tali da essere destinate a trafiggere una persona intera,magari solo per un momento. In ogni caso, Sciascia, a definirlo tutto intero,lo vedo ancora,laggiù in Sicilia(la terra del sole), con la faccia quasi contro il vetro di una finestra,infreddolito,a guardare la neve che cade,che cade ed è trascinata subito via da un vento; dal vento. Come mi raccontava in una sua lettera (“ e poi dicono che la Sicilia è l’isola del sole”). Un personaggio cecoviano.

Così Gulino,per me,sta bene vicino a Sciascia. Possono camminare insieme. In Gulino,anche solo riguardando le riproduzioni delle sue acqueforti,è come sentire cantare sottovoce le muse. Il suono lontano,e vibrante,del clarino. Oppure,direi,le omeriche sirene che tentano il cuore e la mente d’Ulisse con velenosa dolcezza. Tutto è (sembra)sobriamente e stupendamente definito,deposto nella memoria,nella storia esistenziale,e nel segno appena tracciato,scalfito e motivato; eppure è come se un leggerissimo brivido,solo percepito con grande attenzione e grande emozione,sorvolasse le sue lastre,i segni; o quella lastra,quel segno;preavvertimento di un atto,un gesto,un moto,un grido,un suono,un sorriso di misterioso richiamo. Tutto è fermo,sembra;come concluso dopo la lunga fatica dell’opera(sull’opera); eppure tutto insinua e preannuncia la solitaria dilacerazione di un’armonia che non può essere mai di lunga durata. L’attesa dell’esplosione,l’attesa dell’urlo della farfalla. (Quel sentimento incombente che soprassiede anche alle pagine più furtive di Sciascia).Mi sento invitato,guardando e sfiorando,a un lungo meditare,che scalza via anche il sonno. E ho ricevuto l’inquietudine (sana)che mi invita e mi aiuta a cercare dentro di me; in confronto alle cose del mondo. Questo grumo di palpiti riflessivi riesco a dedurre,da un’opera complessa e insigne, semplicemente.

Roberto Roversi

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA

Nunzio Gulino, nato a Comiso il 16 giugno 1920, frequenta ad Urbino il corso superiore all’Istituto di Belle Arti del Libro dove, sotto la guida dei maestri Leonardo Castellani e Francesco Carnevali, approda nel 1944 alla prima tappa significativa di un lungo percorso artistico: le acqueforti che illustrano <<La fiera di Sorocinez >> di Nicolaj Gogol’. Dopo la guerra, insegna a Città di Castello dove tiene nel 1949 la sua prima mostra personale. Due anni dopo fa ritorno ad Urbino e lì insegna fino al 1958 disegno prospettico ed architettonico e poi, dal 1966, disegno e storia dell’arte, sempre presso l’Istituto di Belle Arti. Nel 1967 si trasferisce a Roma, dove ancor’oggi risiede, continuando la sua attività di incisore e insegnante. E’ del 1968 la sua prima mostra antologica alla Galleria d‘Arte Astrolabio di Roma. Tra i riconoscimenti più prestigiosi della sua intensa attività artistica: il primo premio alla VII Quadriennale d’Arte di Roma nel 1956 e i premi acquisiti alla III,V e VI Biennale dell’Incisione Italiana Contemporanea di Venezia negli anni 1955-1963 e 1965.

Gulino è nato in Sicilia, e forse per averla abbandonata in età breve può darsi pure che sia stato il vento polare degli inverni in Urbino a raggelargli carattere e loquela. Intanto gli mancano sintomi e accenti della sua terra ballerina, però non è da escludere qualche vampata di contrarietà sempre repressa con risatelle socievoli. Quanto alla fama non muoverebbe un dito per uno spintone a porte altrui. E vive alacremente in una solitudine che è pure il mordente della sua arte. L’acquaforte non è forse un dettato della solitudine?

Libero de Libero

Gulino, per quanto io lo conosca, vive pure come in un suo <<ritiro>>. E, anche a non conoscerlo, basta guardare i suoi fogli. La poesia vi si inscrive attraverso una pazienza infinita, una sottile e sagace ricerca. E i termini pazienza e ricerca vanno intesi al di là del mestiere: in tutto dentro la fantasia. Che è una fantasua complessa, e senza dubbio anche composita: e va dall’oggetto al suo fantasma, dalla realtà alla surrealtà, dall’occasione e dall’aneddoto al sogno - e a volte al divertimento, alla parodia.

Leonardo Sciascia

I nomi dei maestri della nostra incisione moderna, da Morandi a Maccari, a Longanesi, a Bartolini, a Viviani, a Zancanaro, a Manaresi, sono da richiamare solo per riconoscere a Gulino la grande tradizione cui egli si ricongiunge spontaneamente per virtù di stile e di magia operativa….. Al filo del suo stupore, Gulino è poeta dei pensieri, dei ricordi, dei misteri e dei brividi del tempo che sono nelle cose umili, nel loro apparire.

Alfonso Gatto

 COLOPHON

L’acquaforte originale contenuta in questa cartella, settima della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte di cm 18,7 x 24,7 è stata impressa su carta Magnani bianca di 310 grammi su fondino dai torchi di Vincenzo Burlizzi a Firenze in 100 esemplari di cui 80 in numeri arabi, destinati ai Soci, 10 in numeri romani e 10 prove d’autore riservate all' Artista.

Cartella N. 8 - Natale 2002: Francesco Nasca / Rodolfo Ceccotti: "Il vento libera la luna"

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Passeggiate siciliane con Leonardo Sciascia

L’acquaforte e Leonardo Sciascia, immagini per me inseparabili nel ricordo. Devo infatti al mio amore per le acqueforti il primo incontro con Leonardo Sciascia. Frequentavo allora da qualche tempo la galleria d’arte “Arte al Borgo” in Palermo specializzata nella grafica, gestita da due pittori e incisori Maurilio Catalano e Raffaello Piraino- il primo tendente al consapevole naïf, il secondo al Liberty- dove incontravo l’avvocato Angelo Perna (con il quale condividevo la passione per le acqueforti di Luigi Bartolini) già da tempo assiduo amico di Sciascia. Fu appunto l’avvocato a farmene fare la conoscenza proprio durante una mostra di incisioni di Bartolini, nel lontano 1969; e da allora nacque la mia amicizia con Leonardo Sciascia, grande appassionato di acqueforti specialmente di quelle di Bartolini. A quel tempo avevo letto alcuni dei suoi lavori – oltre l’articolo “Paese con figure” pubblicato su Galleria del 1949 – e cioè Le parrocchie di Regalpetra, Il Giorno della civetta, Il Consiglio d’Egitto, e le Feste religiose in Sicilia nella edizione Leonardo da Vinci, e ne ero rimasto molto interessato.

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Titolo: Il vento libera la luna

Testo di: Francesco  Nasca

Autore: Rodolfo Ceccotti

Misure Lastra: cm 25x35

Condividevo molte delle sue opinioni, mi attraeva il suo stile asciutto, essenziale (stendhaliano), la sua visione del mondo, in particolare il suo elevato senso della giustizia e della legge, cosa peraltro importantissima per me che ero magistrato (“giudice che mai offrirebbe spunto per un racconto-pamphlet che gli offre il suo amico Leonardo Sciascia”, secondo l’affettuosa dedica da lui scritta sulla copia de Il contesto che mi diede).
Ignoravo però la sua grande passione per le incisioni, il suo essere "l’appassionato incompetente” delle stampe come egli simpaticamente amava dichiararsi.
Così da allora la mia amicizia per Sciascia fu definitiva e solidissima: ma ci davamo rigorosamente del lei, il lei di rispetto, io lo chiamavo professore , lui mi chiamava giudice. Da quel tempo, con l’amico Angelo Perna, divenimmo gli inseparabili amici di Sciascia. In quegli anni, nel primo pomeriggio, con l’avv. Perna andavo a casa di Sciascia e poi con lui –e spesso si accompagnavano a noi il poeta e scrittore Stefano Vilardo, molto amico di Sciascia, o Aldo Scimè altro amico carissimo di Sciascia- andavamo in giro per gli antiquari di corso Alberto Amedeo o per le librerie antiquarie della città, fermandoci più spesso nella galleria Arte al Borgo (cui era annessa una stamperia per la grafica) frequentata da artisti, tra i più assidui, quando si trovavano a Palermo, Giancarlo Cazzaniga che tante stampe vi incise, Tono Zancanaro, Domenico Faro, Bruno Caruso, Renato Guttuso, Edo Janich, Piero Guccione, e vi si recavano spesso il poeta Ignazio Buttitta, lo storico medievista Francesco Giunta, lo storico Francesco Renda, l’italianista Natale Tedesco, il pittore Aldo Pecoraino e il fratello, lo scultore Mario Pecoraino, tutti amici molto stimati da Sciascia. Da lì poi si passava di frequente alla galleria “La tavolozza”, ma quasi sempre si andava alla casa editrice Sellerio che allora e per un certo tempo faceva pure mostre di arte specialmente di grafica.
La conversazione di Sciascia che in tali gallerie si svolgeva era amabilissima e stimolante, ci si sentiva accresciuti, era il mio “auctor”; ed era poi incredibile la sua capacità saviniana delle citazioni, per memoria e precisione.
Ma noi tre amici si aveva anche il piacere di andare in auto per i paesi vicini alla città per rifornirci di acqua di sorgente e alla ricerca ora di pane casereccio ora di verdure (“spuntature di cavolo”, con le quali si prepara una deliziosa minestra), tanto che un amico spiritoso ci chiamava gli amici del cavolo. Ma più di tutto erano belle le gite in auto durante le quali si parlava degli eventi politici del tempo e dell’impegno civile di Sciascia, o di letteratura o di stampe. Ricordo la disputa su chi degli acquafortisti contemporanei fosse il più grande, io per la verità optavo per Morandi malgrado la mia passione per L. Bartolini, e Sciascia e l’avv. Perna invece vi anteponevano Bartolini che, diceva Sciascia, era più carico di viva e calda umanità. Ricordo ancora quella volta in cui si parlò del suo rapporto con Pirandello, Sciascia diceva che per lui era stato un padre prima respinto e rifiutato, e poi per sempre ritrovato.
Non posso dimenticare poi una gita a Monreale, era venuto con noi tre Fabrizio Clerici, molto amico di Sciascia, e visitammo il duomo normanno e il chiostro annesso, ove Clerici restò affascinato dal dispiegarsi delle eleganti colonnine viste nella dorata luce del tramonto di maggio. Sentiva forse il cantico delle colonne, “Douces colonnes, aux / chapeaux garnis de jour…”.
O le gite alla Noce, nella casa di campagna di Leonardo Sciascia, dove si andava spesso le domeniche. La contrada Noce di Racalmuto è una amena zona di colline dell’agrigentino, verdi qui e là di mandorli, di vigneti, di ulivi, fichi e carrubi e qualche orto, con case rade e con sparsi pini e cipressi i quali a gruppi o isolati svettano, e con un filo di mare non sempre visibile, e dai bellissimi tramonti rossi e oro che dalla casa di Sciascia si possono godere. Bellissime immagini della Noce sono state date da acqueforti di Giancarlo Cazzaniga e di Edo Janich, quella del primo allegata al primo fascicolo de “Gli amici della Noce”, pubblicazione che Sciascia fece stampare, fuori commercio, per gli amici. La Noce era amatissima da Sciascia che l’ha descritta con tanto amore nel suddetto primo fascicolo de “Gli amici della Noce”, e ivi trascorreva l’estate e scrisse molti dei suoi libri.
Ma all’amore della letteratura e alle stampe egli univa una bella abilità di cuoco, preparava squisiti primi piatti, pasta con salsa di asparagi selvatici, pasta al tonno sott’olio. Questo tonno era quello preparato artigianalmente dal signor Marino di Porticello, strenuo ammiratore di Sciascia e da questi stimatissimo per la sua arte nel lavorare il tonno.
In quella casa di campagna, semplice ed ospitale anche per la presenza dell’affettuosa signora Maria, l’aura di Leonardo Sciascia era tangibile, il suo tavolo di lavoro, i suoi libri, le librerie accanto al caminetto, davano il senso di lui, ne riflettevano il suo essere: ve li ho ritrovati, quando sono ritornato nel suo studio con la finestra aperta sul paesaggio a lui tanto caro.
Alla Noce spesso convenivano giornalisti, scrittori, pittori e amici: Enzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Matteo Collura, il fotografo Ferdinando Scianna, Piero Guccione e tanti altri. Ricordo una gita alla Noce ove ci portò lo sloveno peintre-graveur Vladimir Makuc, autore di molto belle acqueforti nere e a colore, felice di condurre il suo amico ed estimatore Sciascia con l’automobile nuova fiammante acquistata in Italia (allora la Slovenia era molto povera). Altra bella gita alla Noce che ricordo fu quella che facemmo Ferdinando Scianna, l’avv. Perna ed io.
Quell’estate Ferdinando Scianna ed io partimmo da Porticello (frazione marinara di S. Flavia) con del pesce freschissimo e trascorremmo con Sciascia una giornata con conversazioni leggere, piacevoli e stimolanti: ne restano le foto scattate, bellissime, da Ferdinando, una delle quali, che ritrae Sciascia e me, tengo incorniciata sulla parete dietro il mio tavolo di lavoro.
Fui ,ricordo, sorpreso e felice quando appresi la grande stima che Sciascia aveva per l’amatissimo Alberto Savinio (allora Sciascia incominciava a promuovere un vasto interesse per Savinio):scrittore che dagli anni quaranta amavo avendo letto Infanzia di Nivasio Dolcemare. Fu in quel periodo che Sciascia fece pubblicare dall’editrice Sellerio Torre di guardia e Souvenirs nella collana “La civiltà perfezionata” (ai cui testi era allegata ,al primo, un’acquaforte di Jean Pierre Velly, e al secondo, un’acquaforte di Fabrizio Clerici).
Mi dispiaceva però che Sciascia non apprezzasse più tanto Conversazione in Sicilia , libro di Elio Vittorini che per me quando lo lessi durante la guerra nel 1943 aveva significato la scoperta della resistenza all’ingiustizia e la speranza verso un mondo nuovo forse ancora mitico.
Non condividevo nemmeno il suo poco interesse per Proust e per James Joyce, i quali io avevo fin da giovane grandemente ammirati. Del primo, con Savinio, egli diceva che aveva “la frase lunga e il pensiero corto”, e potevo concedergli la prima parte del suo giudizio, non la seconda. Quanto a quello su Joyce, non per caso Sciascia teneva appeso nel suo studio in città un bel disegno a china di Paul Flora, il quale si riferiva al famoso monologo di Stephen Dedalus, nell’Ulisse, rappresentando James Joyce che passeggiava lungo la spiaggia camminando su tante lettere alfabetiche in luogo dei sassolini e delle conchiglie scricchiolanti sotto i passi di Stephen Dedalus.
Ma a Sciascia mi accomunava l’amore per Stendhal (anche se io amavo altrettanto e forse più Flaubert), il quale per me risaliva agli anni quaranta a seguito della lettura de Il rosso e il nero e che la frequenza di Sciascia, cultore profondo e raffinato di Stendhal, mi consolidò, tanto che poi lessi tutte le sue opere, e con Sciascia partecipai alla iniziativa di un medaglione di bronzo raffigurante la testa di Stendhal (con la scritta Henri Beyle milanese) molto bene eseguito dallo scultore Mario Pecoraino. E infine mi accomunava a Sciascia l’ammirazione per Pascal.
Quante altre fondamentali letture debbo a Leonardo Sciascia oltre alla Certosa di Parma: Borges, Rensi (l’appassionato dell’occhialaio Spinoza), Paul Louis Courier, Montaigne, Borgese, Dürrenmatt, De Roberto, Brancati, Jules Renard, e la Storia della Colonna Infame, arricchita dalla incisiva prefazione di Leonardo Sciascia.
Grazie a lui poi ho conosciuto e mi sono appassionato all’opera grafica e a quella pittorica di Mino Maccari nonché alla rivista Il selvaggio, il cui robusto umorismo toscano piaceva tanto a Sciascia.
Del pari a questi devo l’interesse e la stima per Leo Longanesi, delizioso scrittore e incisore.
Conversazione che mi è rimasta impressa nella memoria è poi quella di Sciascia sul racconto di Tolstoĵ che tanto a lui piaceva: La morte di Ivan Il’jĉ, nella traduzione di Tommaso Landolfi, racconto che mi impauriva. Sciascia sentiva fortemente tale racconto e nel 1988 ne parlò, e con quale profondità di sentimento, ne Il cavaliere e la morte.
Non posso dimenticare l’ultima volta che vidi Leonardo Sciascia, qualche giorno prima che ci lasciasse.
Malato, a letto, mi firmò la dedica su una copia del libro Una storia semplice appena uscito, con una grafia incerta della mano ormai non tanto ferma, e si scusava della cattiva grafia, tanto che la dolce signora Maria, e anch’io, per rincuorarlo gli dicevamo che era dovuta alla posizione della mano nello scrivere a letto.
Conservo assai caro quel volume come il più toccante ricordo di Leonardo Sciascia.

La bella incisione “Il vento libera la luna” di questo Omaggio a Leonardo Sciascia è di quelle che piacevano a lui. L’autore di essa è il maestro Rodolfo Ceccotti, che Leonardo Sciascia ebbe modo di stimare tanto da divenirne amico e proporne nel 1984 una mostra nella allora più prestigiosa galleria d’arte di Palermo, “La tavolozza”.
L’arte del paesaggista Ceccotti, che si esprime con nobili ascendenze tra Turner e Constable, Manet e Friedrich, Borrani, Sernesi e Fattori, nelle incisioni raggiunge risultati altrettanto straordinari. La tecnica da lui preferita e praticata con eccellente manualità, della combinazione tra acquaforte e acquatinta, gli consente  di raggiungere gli effetti della vaporosità delle nuvole e del cielo, nel contrasto con i neri profondi degli alberi e della campagna, tanto da esprimere la natura spirituale del paesaggio (si vedano le incisioni “Nuvole attraverso i rami”, “Cipressi nel pianoro”, ”Cielo di Maremma”, ”Verso Volterra”). L’incisione “Il vento libera la luna” pertanto ben potrebbe figurare a illustrazione del canto “Alla luna”: “O graziosa luna……E tu pendevi allor su quella selva/ siccome or fai, che tutta la rischiari”/. E certamente non sarebbe dispiaciuta a Giacomo Leopardi.

Francesco Nasca

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA 

Rodolfo Ceccotti, nato a Firenze nel 1945 si dedica alla pittura fin da ragazzo. Gli anni sessanta, nei quali frequenta il liceo artistico, sono un momento di formazione decisivo, contrassegnato dalla conoscenza di poeti, quali Alfonso Gatto e Carlo Betocchi, e dalla frequentazione di numerosi artisti fiorentini. Una mostra milanese degli inizi del ’70 dedicata alla pittura inglese lo porta a rintracciare in Constable e Turner due fonti della sua ispirazione che coabiteranno con altre, da Fattori fino a Friedrich, per approdare ad una pittura di paesaggio dove la luce domina gli spazi. Nel 1979 ,cinque anni dopo la prima personale, fa seguito una prestigiosa antologica al Centro Culturale Olivetti di Ivrea, tenuto a battesimo da Carlo Ludovico Ragghianti, che lo chiama poco dopo a tenere il corso di Disegno all’Università Internazionale dell’Arte di Firenze,impegno che continua tutt’oggi. Nel 1984 conosce Leonardo Sciascia che lo include tra i cinque nomi della mostra “Artisti e Scrittori” alla Rotonda della Besana di Milano e dichiara “ E’ la scelta di chi ama avere intorno a sé qualcosa di loro, di chi ogni giorno posa gli occhi su qualche loro quadro e ne trae una certa gioia, quasi un aiuto a vivere ”. Dal 1996 assume la direzione didattica della Scuola Internazionale per la Grafica d’Arte “Il Bisonte” di Firenze, proseguendo la sua carriera artistica tra pittura ed incisione originale. Nel 2000 vince, ex-aequo con Philippe Mohlitz, la seconda edizione del Premio Leonardo Sciascia amateur d’estampes.


….Ceccotti: penso a certe sue esperienze del colore che, in termini di grafica, sono tra i raggiungimenti più sicuri che si siano toccati oggi in Italia. Mi limito a dire che in questa sezione la serietà di un artista diventa, in quanto tale, originalità. La capacità di mano non conosce ostacoli, specialmente nella combinazione dell’acquaforte con l’acquatinta, e s’identifica col momento della verità, quando in tanti altri casi, anche di pittori valenti, la grafica è il momento del trucco, se non addirittura dell’insipienza o, nell’eventualità migliore, della mera aleatorietà.

Luigi Baldacci


Questi cieli semoventi e queste nubi di incessanti metamorfosi più si apprezzano, se da Ruysdael a Constable, da de Koninck a Monet, si ricordano gli artisti che prima del Ceccotti hanno cantato i puri cieli, le loro infinite odissee.

Carlo Ludovico Ragghianti

..in tutte le opere di Ceccotti… ciò che intride ogni cosa, scorre sulle pianure, scende dai cieli, dà il tono alla poesia e crea a questi paesaggi come una risonanza interiore, è il sentimento della solitudine. Come se gli uomini fossero scomparsi e sulla scena del mondo la luce dilagasse incontaminata: e come se la nostra solitudine, di Ceccotti che dipinge e di noi che amiamo quello che dipinge, si riflettesse in quelle scene e quella luce

Roberto Tassi

COLOPHON

L’acquaforte-acquatinta originale contenuta in questa cartella, ottava della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte di cm  25 x 35  è stata impressa su carta Magnani di 310 grammi, colore avorio, dai torchi di  Vincenzo Burlizzi a Firenze  in 100 esemplari  di cui 80 in numeri arabi, destinati ai  Soci, 10 in numeri romani e 10 prove d’autore riservate all' Artista.

 

Cartella N. 9 - Natale 2003: Vincenzo Consolo / Antonio Calascibetta: "Qua Qua Ra Qua"

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Sciascia: tra Goya e Dürer

Sapevo che in Sicilia, nel centro del deserto siciliano, c’era uno scrittore di nome Leonardo Sciascia, lo Sciascia, fino a quel 1964, delle Favole della dittatura, La Sicilia,il suo cuore, Le parrocchie di Regalpetra, Morte dell’Inquisitore, Gli zii di Sicilia, Il giorno della civetta,Il Consiglio d’Egitto. E avevano, quei libri pubblicati da Bardi, Laterza, Einaudi, copertine con riproduzioni di disegni e di pitture di Emilio Greco, Nino Caffè, Renato Guttuso, Goya, Anonimo secentesco. Un particolare del disegno di questo Anonimo illustrava la copertina di Morte dell’Inquisitore.La riproduzione completa della stampa, ripiegata in tre parti all’interno, rappresentava un Auto da fe, lo spettacolo di una processione dell’Inquisizione, a Palermo, un sinistro serpentone che dallo Steri si snodava fino alla Cattedrale. In quella stampa lo “spettacolo” era dettagliatamente rappresentato, spettacolo che poi il Pitré, in Del Sant’Uffizio a Palermo e di un carcere di esso aveva minuziosamente descritto. “ Squilla la tromba, e tutto il popolo, preavvisato dai tamburi, viene chiamato allo Spettacolo. Preceduto dal vessillo della Santa Inquisizione, esce dal Palazzo del Sant’Uffizio il festivo corteo…”

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Titolo: Qua Qua Ra Qua

Autore: Antonio Calascibetta (Momò)

Testo di: Vincenzo Consolo

Misure Lastra: cm 30x25

 

Così l’incipit di Pitré. E che festa, noi diciamo, quella in cui si bruciavano vivi i condannati, come il fra Diego La Matina di Sciascia!
Sapevo dunque di Sciascia, di questa luce laica e loica, illuminista, che splendeva in quegli anni tra i fumi sulfurei di Caltanissetta (la città ch’era forse anche stata in passato una “piccola Atene”, come affermava lo stesso Sciascia), nel tetro grigiore dell’infinito crepuscolo civile e culturale della Sicilia (l’isola su cui ormai gravava, nel compiacimento generale, la sentenza di “irredimibilità” del principe di Salina, del Gattopardo).
Sapevo. E così, quando nel novembre del 1963 venne pubblicato, da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo, nella mondadoriana collana di ricerca Il Tornasole, il mio primo romanzo, La ferita dell’aprile, sentii il dovere di inviare il libro a Sciascia accompagnandolo con una lettera in cui dichiaravo il mio debito nei suoi confronti,nei confronti della lezione letteraria e civile che egli mi aveva impartito con i suoi libri.
Lo scrittore mi rispose chiedendomi chiarimenti sulla particolarità linguistica del mio racconto, che era contrassegnato da un forte mistilinguismo, chiarimenti sulla zona dei Nèbrodi in cui la vicenda si svolgeva. E m’invitava anche, Sciascia, ad andarlo a trovare a Caltanissetta. E andai, in un giorno di luglio del ’64, in quella città “remota”, in quella capitale dello zolfo.
Avevo già incontrato, da studente a Milano, alcuni scrittori, Bacchelli, Quasimodo, Vittorini, e quindi, in Sicilia, il poeta Lucio Piccolo, ma l’incontro con Sciascia, per comunanza di patria( patria,dico, culturale, letteraria, morale) fu per me il più importante.
In quella casa di via del Redentore, nello studio dello scrittore, ritrovai, incorniciata e appesa al muro, la grande stampa dell’Anonimo secentesco, la rappresentazione dell’ Atto di fede della copertina di Morte dell’Inquisitore. Poco tempo dopo ebbi in dono un libretto intitolato Jaki, con il testo di Sciascia. Leggendo il quale seppi che Jaki del titolo era lo pseudonimo dell’incisore jugoslavo Joza Horvat. “ Jaki fa la guerra ai demoni antichi e nuovi, alla natura e alla storia, ai mostri  che la natura suscita e che il sonno della ragione produce. Ed ecco che abbiamo nominato Goya: ‘ El sueno de la razon produce monstruos ’, i capricci, i disastri “. Ecco che attraverso le incisioni di Jaki,riprodotte nel libretto (Cavallo ferito, Animale fantastico, Bogus, Animale degenerato…), per i Caprichos e Los desastres de la guerra di Goya, si risaliva a quella stampa dell’Anonimo secentesco che rappresentava un Auto da fe: ecco che si arrivava ai “demoni”, ai “mostri della storia”. Si arrivava a quei due capolavori sciasciani dell’orrore e della pietà che erano Morte dell’Inquisitore e Il Consiglio d’Egitto.
Amava le incisioni, Sciascia, le gravures (e i due termini, l’italiano e il francese, certamente per lui si caricavano di altro significato), e amava soprattutto le acqueforti e le puntesecche (ancora altri due termini significativi) che, con il loro segno nero, si potevano accostare alla scrittura;una scrittura che, passando dal negativo della lastra inchiostrata al positivo del foglio bianco, portava in sé una componente di imprevedibilità, poteva acquistare altro senso al di là delle intenzioni, e della mano, dell’artista. Era per lui, l’incisione, l’affascinante scrittura iconica più simile alla scrittura segnica, l’acquaforte più simile allo scrivere, che è “imprevedibile quanto il vivere”.
“Hay un diablo demente persiguiendo/ a cuchillo la lux y la tinieblas” ha scritto Rafael Alberti nel poema Goya.
L’illuminista Sciascia aborriva il “diavolo demente” dell’Inquisizione, della tortura, della pena di morte; aborriva le dittature, le violenze, i disastri della guerra, i poteri corrotti, la mafia, i capricci e le Disparates, tutte le demenze, le bestialità che il sommo Goya aveva rappresentato. E le rappresentazioni di questi orrori, le incisioni di Goya e dei goyeschi amava e raccoglieva, come memento e ammonimento dei “disastri” in cui la storia in ogni momento può precipitare, in cui l’uomo, il cittadino può essere annientato. E in questa linea, che chiamiamo goyesca, vi rientravano il surreale o metafisico di Fabrizio Clerici, il Clerici della copertina de La scomparsa di Majorana, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, L’affaire Moro; e ancora il Piranesi della Recitazione della controversia liparitana o il Jindrich Pilecek di Nero su Nero… E a pieno titolo vi entrava, nella linea goyesca, l’illustratore di Una commedia siciliana di Sciascia, vi entrava l’incisore dell’ allora Antonio Calascibetta, l’artista che ha assunto oggi lo pseudonimo di Momó e che è l’autore dell’incisione di questa cartella. Una linea goyesca, quella a cui appartiene Momó, linea che passa per Hogart, Boilly, Daumier, Grosz, Maccari: la ripugnanza vale a dire, espressa con la deformazione, con il grottesco, verso tutto quanto è sconcezza, vizio, arroganza, stupidità umana.
Amava il goyesco, l’illuminista Sciascia, ma insieme amava, il romantico Sciascia, le stampe che rappresentavano grazia e bellezza, la chiarità dell’equilibrio, dell’armonia. Amava le fanciulle di Emilio Greco, dalla grazia greca, appunto, o quelle un po’ ambigue, medusee di Bruno Caruso; amava i liberty sinuoso ed elegante di Grasset o l’incanto poetico di Bartolini, di Viviani o di Edo Janich.
Scriveva Sciascia nel catalogo di una mostra di incisioni del 1982: “…quel piacere che danno le carte, gli inchiostri, gli acidi, le morsure, i torchi, le stampe che ne escono ad una ad una, i neri intensi e vellutati o sfumati, le linee che si sentono al tatto, i colori vividi…”. Ecco, delle stampe che “escono ad una ad una” egli andava cercando, a Roma, a Milano, a Parigi, per una sua ideale e aurea collezione, i ritratti di scrittori, dei grandi di quella “superiore verità” che era la letteratura. E molti ne ha collezionato, dal Baudelaire di Manet a Voltaire, a Valéry, a Hugo, a Stendhal… I suoi amati, le sue gioie.
E poi, nella lucida, triste consapevolezza della fine, ritorna al nero, all’immagine allusiva e inquietante.
Una famosa incisione del Dürer fa da illustrazione della copertina e da leitmotiv a Il cavaliere e la morte, l’incisione intitolata Ritter, Tod und Teufel (Il cavaliere, la morte e il diavolo). Quel “cavaliere” del Dürer ha suscitato pagine di riflessioni, suggestive interpretazioni al critico Panofsky, ha dato modo a Lea Ritter Santini di rimandare a tanti scrittori che con quell’immagine si sono incontrati: Nietzsche, Mann, Hofmannsthal, D’Annunzio…
Per noi quel cavaliere di Dürer, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, che solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al suo robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, la città ideale o d’utopia che mai raggiungerà, rimanda a un altro cavaliere, al Cavaliere disarcionato di Max Klinger: l’uomo è a terra, schiacciato dal corpo del suo cavallo, inerme anche per la spada (la penna) che gli è caduta di mano, solo e moribondo in mezzo alla foresta, un nugolo di neri corvi che gli volteggiano sopra, pronti a ghermirlo. Un inquietante Max Klinger (un Klinger che ha letto Poe e che è stato letto da Hitchcock) Sciascia cita nel suo ultimo racconto di congedo, Una storia semplice.
I corvi neri che volteggiano sopra il corpo del Cavaliere disarcionato, sono i fanatici uccellacci del potere politico - mafioso. Quello che Sciascia ha combattuto con la sua spada,  la sua penna.

Milano, 22 / 9 / 03                 Vincenzo Consolo



Antonio Calascibetta, in arte Momò , nasce  a Palermo nel vicolo del Forno. Si laurea in architettura nel 1977 con Gregotti e Pollini e,nonostante l’intrigante passione per essa, opta per la pittura che aveva praticato sin da ragazzo. Alla mostra “Il sacro nell’Arte”, del 1977, presenta un’opera dal titolo “Processioni e Processi”che lo pone all’attenzione della critica. E’ dello stesso anno la sua prima esposizione personale che mette in evidenza i caratteri della sua vena satirica e grottesca che non passano inosservati all’attenzione di Leonardo Sciascia il quale,visitando questa mostra, ne rimane suggestionato. Esegue in questi anni diverse scenografie teatrali ,per trasferirsi poi nel 1982 a Milano. Nel 1983 sei acqueforti originali illustreranno “Una commedia siciliana”,testo di Sciascia pubblicato a Catania per le edizioni Orizzonti della Bibliofilia Italiana di Fortunato Grosso. Dal 1985 si susseguono le esposizioni di Calascibetta(tra queste,alla Fondazione Corrente, alla Galleria Philippe Daverio ); nel 1994 presenta la mostra “Labirinto” ,con testo di Vincenzo Consolo,presso la Galleria Antonia Jannone. Dedicatosi a progetti di architettura, scultura, mosaico, nella primavera del 2000 avvia la sua  nuova produzione artistica con il nom de plume Momò e con un sodalizio con Gino di Maggio alla Fondazione Mudima : qui tiene nel 2002 a Milano una mostra evento.

…Di uno dei suoi primi quadri,esposto alla mostra del <<sacro nell’arte>> nell’arcivescovado palermitano, il titolo era Processioni e processi; e questo si può dire che è il tema,costante fino ad ora. Tema cui è implicito,ad aggiungere imbestiamento ad una classe di potere già sufficientemente imbestiata nella più lata avarizia e nella più lata rapacità, quello di una sessualità senza gioia, in sé arrovellata.

Leonardo Sciascia

C’è offesa e risentimento nei quadri di Antonio Calascibetta, c’è aperta denunzia della colpa di Pasifae e bisogno, desiderio struggente di liberazione, d’uscita dalla nostra prigione, dal labirinto d’angoscia e dolore.

Vincenzo Consolo

Calascibetta dice, e bisogna credergli, che quando prende in mano la matita o il pennello per inseguire un’idea non sa bene quello che fa. Le mani vanno, sono loro che portano. Sembrerebbe una ricetta surrealista. Ma non è una ricetta, e il suo dipingere surrealista non è certo. Io lo vedo come un travaso puro e semplice –lubrificato da quel mestiere prioritario e fatto natura che impressionò Sciascia fin dagli esordi- di un’immaginazione in moto perpetuo, che si sbriglia senza mai perdere il filo nei più straordinari percorsi.

Fabrizio Dentice

Colophon

L’acquaforte acquatinta originale ,realizzata con due lastre di zinco e ottone di 300 x 250 mm, contenuta in questa cartella, nona della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'incisione è stata impressa su carta Magnani di 300  grammi, con i torchi di Daniele Upiglio nell’Atelier Quattordici- Grafica Upiglio22250 a Milano  in 100 esemplari numerati e firmati,  di cui 80 in numeri arabi, destinati ai  Soci, 10 in numeri romani e 10 prove d’autore riservate all' Artista.

Cartella N. 10 - Natale 2004: Michel Random: "Variazioni visionarie"

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Entre nous

Caro Michel,

appena un anno è passato dalle causeries in rue Lemercier.
Scartabellando tra memorie di carta, accanto ad un sognante Federico Fellini, tra Ignazio Silone, Carlo Levi, Italo Calvino, e tanti altri ancora, ecco spuntare le immagini di un Leonardo Sciascia di trent’anni fa.

Colpo di fulmine.

Breve il passo successivo: il progetto che si avvia, la passione che si accende e infonde energia alle riflessioni, fino all’ effimera vittoria del nero sul bianco, malgrado tutto.

“Con te si può solo cedere, se no ci sarebbe da ammazzarti”.
Mi hai graziato.

I testi ci sono e le immagini pure: la memoria è salva .

 

Francesco

Cartella N. 11 - Natale 2005: Antonino Cremona / Carlo Cattaneo: "Attori"

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Notizia

Il linguaggio di Antonino Cremona è una sorta di patois girgentano fortemente personalizzato, che consente di sfogare un estro scapigliato e tenero insieme, soprattutto nei casi in cui esso viene applicato a tematiche amorose e soggettive o quando si volge a delicati affondi descrittivi (Occhi antichi, 1967).
Così la critica più autorevole (Il secondo novecento, Storia della Letteratura Italiana, diretta da Enrico Malato, Salerno Editrice, Roma, 2005, Vol. IX, Parte II, pag.1354) su una figura d’eccezione nella cultura italiana.
Coetaneo di Sciascia (che lo annovera tra coloro che lo avevano aiutato nell’impresa di Morte dell’inquisitore), redattore italiano della parigina Revue des lettres modernes, traduttore di Lorca, Heine, Machado, Eliot, poeta, saggista, prosatore e autore di teatro, avvocato civilista di professione, Antonino Cremona aveva scritto per noi - poco prima della scomparsa avvenuta il 24 settembre 2004 - due testi che qui con viva commozione si pubblicano. Alla testimonianza espressamente dedicata all’arte (Stampe con appassionamento) non abbiamo saputo resistere alla tentazione di aggiungere l’altra (Sciasciana) che, per il gioco del caso, diventa anticipazione di “Sciascia da giovane”, testo inedito che gli Amici di Sciascia daranno presto alle stampe per l’affettuosa curatela della figlia dell’autore, Ester , alla quale va la nostra gratitudine.

Francesco Izzo

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Titolo: Attori

Autore: Carlo Cattaneo

Testo di: Antonino Cremona

Misure Lastra: cm  24x30

Stampe con appassionamento

Oli, anche di terre impastate dall’artista: come ho visto Felice Filippini. Tempere, acquarelli – di solito si scrive acquerelli, ma l’acqua per questo modo di pittare è sempre una sola in tutto il foglio – e sanguigne, carboncini, fondi di caffè, gessetti, intrugli con la cenere. Acrilici. Litografie, serigrafie, xilografie. Disegni di qualsiasi pennellino, penna,pennino; di qualunque inchiostro (pure di quelli tipografici), matite, pastelli anche rifiniti con il coltello per svelarne le trasparenze. Acqueforti e acquetinte – qui sta bene segnare che s’intrufolano liquidi variamente abrasivi – bulini, puntesecche (come quelle che il magico Luigi Toccacieli traccia sul ginocchio, gambe accavallate), zuccheri, maniera nera. Su zinco, su rame, a matita grassa quale negli ultimi tempi Renato Guttuso usava o a china nel modo indelebile di Bruno Caruso. Legno e linoleum scavati. Maioliche, terrecotte, vetri dipinti, vetri graffiati, bronzi e bronzetti, pietre, marmi, pirografie, legni scolpiti, onici, ceramiche sì o no invetriate… Tutto quello che si vuole: il vizio mediterraneo di stendere cataloghi potrebbe occupare molte pagine. Non sorprende che l’Assemblea regionale siciliana dia mostre d’arte figurativa. Si è ricalcata sul Senato, emolumenti, divise, carriere; dalla Camera  ha preso  il titolo  di deputato- non consigliere- regionale, e l’appellativo di  onorevole che mette prima del nome dei suoi consiglieri (se qualcuno fa proposta di abolire l’appellativo, non è per finta modestia ma forse per dare forza alla somiglianza con il Senato). Queste mostre, per così dire, istituzionali non sono però sinora un’indebita ingerenza di qualche dirigismo politico nelle cose dell’arte. Ad oggi, i criteri sono stati irreprensibili. Anche se, alla fine, sono sempre scelte burocratiche ma di una burocrazia in questo argomento informata con buongusto. Diversamente da altro genere di burocrazia. Felice Filippini, ticinese, aveva tre mestieri: dipingere, narrare, dirigere i servizi culturali della Radio svizzera italiana dei quali ero un collaboratore esterno. Se n’inventò un quarto, portarmi in giro per la Svizzera. Così da Lugano, insieme a mia moglie, andammo nei Grigioni; a Lostallo dove lui teneva una mostra di oli, nello stesso luogo in cui Rosalda Gilardi Bernocchi – piemontese e ligure con studio a Losanna – esponeva le sue sculture. Ci attrasse, della scultrice, una Demetra: tre fantasmi di bronzo, su un’unica origine infissa in un tronco muschiato. Partì da Genova, e arrivò pacificamente a casa. Dell’amico pittore  scegliemmo un  Trasporto  notturno, soave  musica  in pittura per un funerale. Quel  concerto  dipinto  si  svelava guardandolo da  lontano, e da  lontano  si guarda  in casa  mia con tutta godibilità. Filippini non usa cornici, la stessa pittura stavolta ne ha la funzione per tratti dorati di pennellessa. Il grande quadro partì da Lugano, ebbi avviso dell’arrivo dalla dogana di Porto Empedocle. Andai a prenderlo, ma il doganiere intesseva le sue chiacchiere: la cassa è grande, chissà quanto deve pagare. A certo punto lo convinsi ad aprire, lievemente, io stesso aiutando lui e i suoi assistenti. Lampeggiava l'oro pitturato (ah, lui squittiva, è una cornice barocca; certo, chissà quanto deve pagare) e io continuavo a chiedere lentezza, frenavo l’uscita del quadro che lui invece era impaziente di vedere. Si mise proprio le mani fra i capelli, quando il dipinto fu tutto liberato: ma che cos’è, sono macchie scure altre bianche, certo lei lo manda indietro. Gli spiegai che l’autore già  allora era ben conosciuto nel nordeuropa, comunque era un amico, tornarlo sarebbe stato uno sgarbo, e il quadro m’interessava. Tela di juta sporca intelaiata, si lesse nella quietanza. Pagai tre o quattro lire. Non c’erano fotocopiatrici, allora. Feci fare una fotografia,la mandai a Filippini con dedica. Quando sarei potuto diventare senatore senza tessera di partito, del collegio di Girgenti allora ‘sicuro’ per la sinistra, avrei proposto una mostra – in Senato – anche di quel pittore intero ch’è Santo Marino. Ma non avevo i quarant’anni, che occorrevano  affinchè la  candidatura fosse  accettabile. Santo Marino mai è in mostra al Senato, non ancora nell’Assemblea regionale, ma quando ero ai vertici del sindacato degli scrittori potei fare in modo che (oltre alle estese delegazioni estere) venissero ospiti del congresso nazionale lui e Guttuso: un incontro o un confronto muto, senza quadri, dei due massimi pittori dell’espressionismo siciliano: uno della Sicilia orientale, l’altro di quella occidentale, giacchè l’oriente e l’occidente della Sicilia non sono la stessa cosa. In verità, a Guttuso quel mio discorrere di espressionismo a proposito di pittori siciliani non piaceva troppo; anche se cercavo di spiegare che l’espressionismo nordico è violenza, quello dei siciliani è sofferenza. Neppure meraviglia che il catalogo della mostra di Bruno Caruso, all’Assemblea Disegni 1944-2004, sia edito dalla Fondazione Federico II che dell’Assemblea è una dipendenza. Data l’improvvisa giravolta di Fini, per sfortuna non quello dei bei salumi, scorre liscio come l’olio d’oliva nocellara che la premessa al catalogo – firmata dall’An presidente dell’Assemblea – abbia toni che anche il più estremo partigiano della Brigata Garibaldi potrebbe sottoscrivere. La ragazza viennese che appare improvvisa come un miraggio, i legnami di assoluto fascino geometrico, i denti, mani, piedi dei personaggi, occhi spalancati (tanti dipingono gente senz’occhi o con gli occhi chiusi, non riescono a renderne le luci), le siepi, le palme,  le dracene,  grafica  inarrivabile riprodotta in questo prezioso volume, sono accompagnati da un’avvincente confessione dello stesso Bruno Caruso ma con una brusca chiusura: <<Hanno scritto sui miei disegni>> […] <<e un migliaio di altri autori. Pochi addetti ai lavori non hanno mai scritto un rigo ed io, in fondo, me ne posso vantare: per la loro ignoranza, per la loro innata volgarità e per la venalità che li domina. Devo dire che questo sfogo non mi sfiora, giacché non mi ritengo addetto ai lavori. Però è opportuno riflettervi un momento, perché Bruno Caruso non è inciampato in un eccesso caratteriale. Al fondo vi è la ragionevole insofferenza per il distacco, melenso, che prosegue generalmente a esservi tra gli scrittori e gli altri artisti. Anche si è detto che i migliori critici dei pittori – e scultori, via di seguito – sono gli scrittori (narratori, drammaturghi, poeti) ma le dimensioni del fossato, che distanzia queste categorie di autori, sono vistose. Hai voglia di riprodurre opere d’arte nei libri degli autori di parole, l’effetto e forse anche lo scopo è sempre quello: averne decorazioni. Illustrazioni, qualcosa di complementare però  sicuramente secondario. Salve rare e nobili eccezioni come quei libretti di Antonella La Monica, in sinfonia di versi, con gli smalti creativi di Oscar Carnicelli. Magari potrebbe essere quel fossato una conseguenza di qualche  complesso,  non  specifico,  di  superiorità –  peggio, d’inferiorità – di scrittori verso artisti che scrivono: ve ne sono stati, e ve ne sono, mirabili. Una sorta di reazione inconsapevole, forse.
Ho avuto a suo tempo conversazioni amichevoli con Bruno Caruso, nello studio di Guttuso e occasionalmente persino in aereo, e posso asserire che lui è persona generosa responsabilmente consapevole delle proprie eccellenti qualità grafiche e pittoriche. Peraltro, arricchite con una finissima sensibilità solidaristica e una splendida sicurezza ideologica dentro un’enorme cultura. Questo naturale porsi di Bruno Caruso non poteva non sollecitare l’attensione, persino l’affetto, di Leonardo Sciascia. Il quale, certamente, era versato al godimento notomizzante e allo studio delle cose d’arte. Con un debole per le ‘stampe’, per la stessa varia carta delle stampe, con una propensione istantaneamente intellettiva e sensoriale. E con un fiuto infallibile nell’individuare le virtù dei veri artisti. In tanti decenni di presentazioni di mostre, di premesse in cartelle e in cataloghi, ho raccolto una non trascurabile quantità di opere (anche sculture da posare, altre da appendere: per fare un esempio, Giuseppe Agozzino il seniore) che ricoprono le mie pareti e che affollano i miei luoghi di deposito. Ma si potrebbe comporre un volume, aggregando in schede le stampe che Sciascia – nella molta considerazione del  prossimo e  nella  bastevole  stima  di  sé  stesso – mi  ha donato. Per un impulso affettivo, tutte quelle di sua provenienza sono alle pareti. Le altre: raccolte a mucchi in vari angoli della casa, da sfogliare con delicatezza, odorare tenendo i bordi fra gli indici, guardare controluce indovinando il verso della lastra. Le rivisitazioni procedono con uno sguardo d’insieme alla pagina, una parcellizzazione visiva, di nuovo lo sguardo d’insieme e la soddisfazione di avere visto. Al muro, e avuto dalle mani di Sciascia, anche un pezzo unico di Bruno Caruso: un’incisione tirata a sola impremitura, bianco su bianco, ma questa di suo dono è una prova ad inchiostro (la falce di luna con il poeta arabosiciliota a cavalcioni, i minareti in basso a fare da sfondo). E una tiratura postuma di Renoir, le dame con i cappelli trafitti da spilloni. Tanti stranieri, e autori del nord e del sud e dell’est europeo. L’incredibile Keep Left in cui Costantini ha fuso quattro diversi punti di vista. E’ grandioso il numero di artisti che gli ho presentato, e quello di quanti mi ha fatto conoscere. Tutti sanno che dai Quaderni di ‘Galleria’, che lui ha inventato e diretto, è passata la schiera degli scrittori di seconda metà del Novecento. Pochi si sono accorti che le pubblicazioni saggistiche dei Quaderni hanno rivelato, oppure riscoperto, incisori che sono apparsi in quell’arcobaleno sciàscico per poi ottenere stima o pure entusiasmo da parte degli amatori di stampe. Anche questa  pochezza di  attenzione dà  conferma  allo sfogo di Bruno Caruso. Quanto a me, privo di occasioni per scrivere di lui, continuo a vedermi non addetto ai lavori.>>

Antonino Cremona

Sciasciana


La notizia che a un nuovo asteroîde é dato il nome di Leonardo Sciascia porta di nuovo alla sua tomba: ce ne ricorderemo di questo pianeta.
Che insieme è Racalmuto quanto è la Terra. Dunque, Leonardo è lì a percorrere i cieli. A gloria dei girgentani, nella stessa area del pianeta Empedocle e dell'asteroide Luigi Pirandello.
Racalmuto/mondo è la sua terra, in effetti non Girgenti. I racalmutesi per motivi burocratici appartengono ad Agrigento, ma la loro mente è rivolta a Caltanissetta e alla Sicilia orientale. Caltanissetta era uno dei castelli di Girgenti, però abo¬lito il suo Vallo di amministrazione berbera - e poi messo un vescovo a Caltanissetta - Girgenti dovette rinserrarsi nelle sue mura e vedere fiorire economia e cultura nelle zone nissene. Né muove qualcosa il fatto che, di recente, la diocesi sia stata  fatta arcivescovile e che l'arcivescovo sia metropolita di un territorio che all'incirca riproduce il Val di Girgenti.
Più volte Leonardo scrive del mio paese, come luogo a lui estraneo (i suoi studi naturalmente avvennero a Racalmuto e a Caltanisetta) anche se finisce per assumere quale padre, uno dei padri ma fra i più notevoli,  Luigi Pirandello. E quella notizia mi riporta all'antica idea di mettere insieme i miei numerosi saggi a lui dedicati, scrivendo un libro intitolato Sciascia da giovane.
Sua figlia Anna Maria si é commossa, tempo addietro, per telefono ascoltandomi: voi appartenete alla mia crescita. Sono stato sempre intrinseco alla sua famiglia, da quando ero molto giovane. II nostro colloquio, spesso silenzioso ma vivace di sguardi , continua ancora. Solo che - pure dopo la sua morte - me lo sentivo accanto, ora devo alzare gli occhi per scrutare fra le nuvole.
Mio padre era avvocato, fra i suoi clienti il notaio di Racalmuto. Il quale, ogni tanto,  mandava il figlio minore (già laureato) per varie occorrenze. Ero studente all'università, ma stavo molto nello studio. Dai miei 4 anni come correttore di bozze,  via via aiutando i commessi,  facendo da segretario, da ricercatore di dottrina e di giurisprudenza, infine stilando le difese. Aldo Alàimo, il figlio del notaio, arrivò una volta per me; non per mio padre.
Mi porse un poco spaurito La Sicilia, il suo cuore e Le favole della dittatura, aggiunse Il fiore della poesia romanesca: Sono di un mio compaesano che chiede il permesso di venire a conoscerla. Ovvia la risposta: liberissimo, non occorrono permessi.
Nei giorni mi posi a leggere quei libri, uno dopo l'altro.
Da qualche tempo avevo avuto il permesso di occuparmi anche di filosofia e di letteratura, vicenda in cui Eugenio Montale aveva avuto un inconsapevole ruolo. Scrivevo su giornali e  riviste, collaboravo a servizi culturali della Rai e della Radio Svizzera Italiana, Emilio Mariano si era determinato a farmi dirigere la sezione albanese e quella berbera tuareg dell'Orfeo antologia della lirica universale - per una seconda edizione meno incompleta, che non sì fece mai - ed ero il redattore italiano, uno per ogni lingua, della parigina Revue des lettres modernes. Non lo sapevo, ma la richiesta di Leonardo Sciascia mi fece intravedere che allora forse contavo qualcosa.
Non vi fu bisogno che venisse a trovarmi. Mario dell’Arco mi avvisò che sarebbe stato a Palermo nei tali giorni per un convegno, finalmente ci saremmo potuti incontrare di persona. Anch'io ero invitato, e mi preparavo ad andarci. Ci avevano alloggiato nell'Hotel Centrale, per caso l'albergo di abitudine della media borghesia girgentana. Leonardo e Mario parlavano in un angolo della hall. Dalla lettura di quei tre libri avevo potuto capire le origini anche franco ispaniche della cultura di Leonardo, la sua creatività non moraleggiante ma etica, la sua capacità di coniugare l’impegno civile con l'introspezione saggistica e peraltro con la scioltezza narrativa (una scrittura che via via si fece  sempre più stratificata, ammiccante, ammirevole). Eravamo tutti e tre contenti. 
 Andammo a dormire, ognuno nella sua stanza. Leonardo bussò: Chiuditi bene a chiave,- all'improvviso potrebbe entrare qualche donnina, non si sa mai. Temeva che potessi contaminarmi con una ragazza d'albergo. E rivelava, subito, un attaccamento fraterno.
   Di quel convegno, Ester (mia figlia, maestra d'incisione) conserva una fotografia. Siamo seduti su un divano di pietra, tutti a gambe accavallate, dal primo piano allo sfondo Leonardo poi Francesco Leonetti e Mario Colombi Guidotti – che da lì a poco sarebbe stato ucciso in un incidente stradale - Mario Boselli, in ultimo io che scelgo sempre i posti più in ombra. Ricordo la commistione di nuovo e di vecchio, bestie locali che davano della bestia a Carlo Bo perché avevano il ciclostilato della sua relazione... senza punti a capo (non capivano che quelle erano due cartelle con ogni frase intima all'altra, come un formaggio a pasta filata: non si può spezzare se non si smette di filarla), la cena con Mario La Cava e Rocco Scotellaro, Rosso di San Secondo con cappotto e tasco camminava dolcemente appeso al braccio della moglie, gli scrittori tutti assiepati attorno a Elio Vittorini, Enrico Falqui che in ascensore guardava il soffitto mentre Gianna Manzini sorrideva al prossimo (però forse questo riguarda un'altra occasione, quando Mario La Cava guardava l'orologio e con l’arguzia degli animi candidi si stupiva: E' mezzanotte, torniamo a casa¬ come i debosciati).
Leonardo cominciò a frequentare l'abitazione e la tavola di mio padre, che considerava i miei amici come suoi. Furono ospiti in casa lui e sua sorella, quando suo padre per un ictus fu ricoverato all'ospedale San Giovanni Di Dio.
Andavo via dallo studio attorno alle 19, in 20 minuti con la strada vecchia ero da Leonardo a Racalmuto nella salita Regina Margherita. Quasi ogni sera. La moglie offriva ciambelle. Le bambine guardavano in silenzio. Alle 20, dopo un'intensa conversazione, ero già nell'automobile.
Non è vera amicizia se non c'è l'invito al desinare. Leonardo abitava un piano in casa delle zie. Una domenica mi trovai a pranzo. La moglie era andata dalla sorella, a Catania. Eravamo a tavola Leonardo e io. E un antipasto  di uova sode. Si sente raschiare alla porta, Leonardo la socchiude e prende i piatti di maccheroni al ragù. Di nuovo si sente raschiare, s'intravede la mano che passa il pollo alla brace morbido e croccante. Così per le cotolette, fritte con le patate tagliate alla francese. È  la zia Nica, la quale non vuole farsi vedere. La frutta è in tavola, come l'acqua e il vino, e il cuscus dolce che io avevo portato e che attrae molto Leonardo. 
Ma nessuno vada adesso dalle benedettine del Santo Spirito, qui a Girgenti, per quel cuscus di mandorle inverdito di pistacchio o per pasta reale a forma di triglie e di conchiglie traslucenti argento e rosa - imbottite con crema di fastuca, che sarebbe il pistacchio - perché queste raffinatezze si trovano oggi meglio nelle comuni dolcerie: non ci sono più 1e suore antiche, quelle giovani non hanno imparato bene.
Pirandello e il pirandellismo feci pubblicare dalla Revue in tre puntate nella traduzione di Michel Boyer. Tale fu il successo del primo affacciarsî di  Leonardo alla Francia che quei numeri furono ristampati tre volte. Intanto il libro ebbe il premio della Regione Siciliana, e dovetti intervenire da avvocato perché all'autore avevano dato una busta vuota.
A Roma, Leonardo stava al Santa Chiara. Io in via Nemorense. Era venuto in mente a Rosario Assunto e Ignazio Silone che andassi a presentare nel Circolo della Stamperia l'ultimo libro di un giovane scrittore siciliano ma di 11 anni più avanti di me, Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra. Leonardo mi telefonò che voleva vedermi, prima che iniziasse la serata. Sapeva che avevo uno scritto, non avrei parlato a braccio data la complessità degli argomenti. Voleva vedere quel testo, per evitare che vi fosse qualche incensatura dovuta all'amicizia. Gli spiegai che proprio l'amicizia derivava dalle sue qualità umane e intellettuali, ma volle ugualmente leggere per stare tranquillo.
Altre domeniche sono stato da lui, e tutta la sua fami glia, alla Noce nella casa vecchia stipata di libri gialli e d'ogni genere. Altre volte (in visita) mi accompagnavano poeti e poetini, giornalisti, narratori in erba, che cercavano la sua benedizione. Lui riceveva tutti, gentilissimo e attento con tutti. Maria Andrònico, la moglie, sorridendo portava il gelato. Si sa che dietro ogni grande uomo c'è una grande donna. Questo non riguarda Maria, perché ha saputo sempre stargli accanto.
Non è possibile - mi disse - che continui a tenere i tuoi versi nel cassetto. Era venuto a prendersi quello che poi fu Occhi antichi per i Quaderni di “Galleria”.
Gli scrissi che avrei sposato una ragazza alta e bruna, occhi verdi, e avevo saputo ch'era figlia di un fratello di sua madre. Com'è piccolo il mondo, rispose. Venne al matrimonio, in cattedrale com'era divenuto indispensabile. Mormorò a Pietro Amato una domanda retorica: Chissà se questo vescovo crede in Dio... Nel ricevimento qualcuno obbligò, gli sposini a bere lo spumante incrociando le braccia. Arrivò al tavolo: Dopo avere visto questo me ne posso andare.¬
        Si trasferì da Racalmuto. a Caltanissetta. Lì -andavo spesso con mia moglie per trovare i suoceri, e anche lui. Mi prese¬ da canto: io non scrivo più di te, e tu non scrivi più di me, non voglio che la cuginanza induca a dubbi. Ma (risposi) ognuno di noi due è sempre stato oggettivo, senza favori, così continuerà ad essere. No, insistette, ascoltami perché come ti dico io è meglio. Non mi giunsero più i suoi libri dall’editore. Continuai a fargli avere í miei. E lui mi rispondeva per lettera.
Venne, in Sicilia, Ciril Slobes - lo scrivo come si pronunzia perché il computer di chi copia le mie cose, scritte a mano, ancora non possiede i giusti caratteri - e immancabilmente giunse a Girgenti, con moglie e figlio, a casa mia con Leonardo e con Pietro Amato attento  custode di memorie sciasciane e suo critico acuto. Leonardo, in quel tempo, aveva una verghiana passione per la fotografia. Ci ha ritratti dovunque (a casa e fuori casa, nella valle dei templi, proprio dovunque) in gruppo e singolarmente. Prima che mi arrivasse il londinese Geoff Howard con ombrellini  e filtri per una rivista del Giappone, i migliori miei ritratti - a parte che non amo la mia iconografia -  sono quelli scattati da Leonardo.  Un pomeriggio lo trovai in apprensione. Non si decideva sui due finali che aveva pensato per L’onorevole.  Gli dissi la mia preferenza. Usò quella, dopo altre esitazioni.
Quando fece la casa nuova alla Noce, le nostre soste familiari divennero d'estate più intense. Lui cucinava gli spaghetti col tonno, e quelli con i peperoni crudi, uova e salsiccia e verdure sotto la cenere, offriva vini pregiati che non beveva per evitarsi un immancabile mal di capo. Le donne impastavano fuazzi e unchiateddhi , cioè focacce e gonfietti, e li cuocevano nel forno. T'impegno un terreno accanto al mio, diceva, così ti ci costruisci una casa. Si arrese quando, per l'ennesima volta, gli spiegai che i miei orari d'avvocato non mi permettevano di tenere casa in campagna. 
Venne sua madre con la falletta colma di germogli neri, rotondi: Peccato, questi acculazzàti stavano per andare a male. Leonardo ebbe un gesto di sorpresa, subito ne rise amaro; ormai il campicello d'angurie era distrutto.
Aveva una mira infallibile. Metteva in piedi su un muretto la monetina di 5 lire, allora la più piccola, e da lontano la centrava sempre: con il suo flobert. Mi offriva di sparare, ma al flobert io ho sempre preferito Flaubert.
Poi ha messo su casa a Palermo, dopo il soggiorno romano milanese.
Splendide serate in terrazza con gli Sciascia e Ferdinando Scianna; Francesco Giunta,  tanti. Leonardo, quando restavamo soli, metteva in forno i funghi: un filo d'olio e una macinatina di pepe nero. Mangiava l'uovo scaldato tenendolo in mano. Lo lasciò cadere, allibendo, quando la figlia Laura narrava di certi indici di nomi in cui Boccaccio veniva inserito come Giovanni giacchè l'Alighieri figura come Dante.
   Non uscivamo mai da casa sua senza avere in dono una stampa,  o un libro magari in prestito. Noi eravamo i suoi “fornitori ufficiali” del cuscus delle suore. Un giorno si presenta con un fascio di carte: le sue ricerche su Flavio Mitridate maestro di Pico della Mirandola, ebreo girgentano (in verità, di Caltabellotta ma formatosi a Girgenti) che ignoravo come davvero si chiamasse - prima che Angela Scandaliato mi avesse ora fornito notizie sul fervore di studi berlinesi circa questo personaggio - perché gli era stato imposto il nome di Guglielmo Raimondo Moncada, quello di chi l’aveva liberato dalla schiavitù. Tieni (disse) so che fai le stesse ricerche, a me non interessa più perché ho capito tutto, sono preso da altri. interessi. Erano la sua visione del futuro, anche meno prossimo. Quelle carte sono ancora conservate, nonostante la tragedia pressante (divenuto prete cattolico, ciantro della cattedrale, predicatore nella corte di tre papi, alla fine bruciato vivo essendosi scoperto che davvero non si era mai convertito e fingeva per proteggere i correligionari) forse perché, e sono quattro decenni, ancora non ho risolto cosa si cucinasse nei vari suoi luoghi prima della scoperta dell'America né se farne un racconto o un poema o una cosa di teatro.
All'improvviso mi propose: Faccio una collanina con Einaudi, ogni scrittore si occupa del suo paese – personaggi particolari, cose, luoghi, modi di dire - in varie schede, tu fa Girgenti e poi definiamo. Non ne seguì nulla, perché in pochissimi (meno di cinque) accettarono l'invito.
Penso che mantenesse la pronunzia racalmutese e genericamente siciliana, pure parlando in italiano, per segnalare la propria identità anche quando risaliva dal “particulare” di Guicciardini al giudizio sull'universo.
Aveva mente geometrica, adatta a capire tutto: dalla musica alla sostanza del diritto. Alcuni di noi si auguravano di poterlo avere presidente della Repubblica. Purtroppo, la sua vita fu più corta. Ma la commissione che dà il nome ai corpi celesti ha stabilito che vigili da lassù.
Di sera, stavamo passeggiando in viottoli della Noce. Ci accompagnava una lucciola. Con noi c'è Pasolini , dissi. C'è  sempre Pasolini,  rispose.

Antonino Cremona

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA 

Carlo Cattaneo, nato ad Alassio nel 1930,vive e lavora a Roma. Nel 1947 frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma e segue il corso di Roberto Melli al quale resterà legato da profonda amicizia. Espone per la prima volta nel 1949 alla galleria “La Vetrina” di Gaetano Chiurazzi. Ritorna ad Alassio nel 1956 per dedicarsi alla scultura e alla ceramica. Nel 1971 vince il Premio Mazzacurati. Un anno dopo è invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1980 una sua incisione è ospitata nella collana de <<La civiltà perfezionata>> di Sellerio per Il fiume Alfeo di Roger Caillois ,tradotto da Maria Andronico. Nel 1987 vince il Premio per la pittura alla XXX Biennale Nazionale d’arte Città di Milano. Gli viene conferito nel 1994 il Premio del Presidente della Repubblica dall’Accademia Nazionale di S.Luca. Riceve nel 1995 a Roma il Premio Michelangelo Buonarroti, insieme a Roberto De Simone, Giancarlo Menotti, Sergio Quinzio, Carlo Rubbia e Giorgio Soavi. Ha illustrato moltissimi libri; spesso con incisioni originali. Numerosissime le sue mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Di lui hanno scritto, tra gli altri, Rossana Bossaglia, Raffaele De Grada, Guido Giuffré, Antonello Trombadori,Vittorio Sgarbi, Roberto Tassi.


Visionario- Carlo c’è nato. Chi avrebbe potuto amputarlo? Ecco uno che ha conservato sempre, invidiabilmente, il suo patrimonio di organi invisibili. Senza questi siamo anime morte. Scriveva Artaud: “Quando vivo io non mi sento vivere. Ma quando recito, allora sì che mi sento esistente”. Togli il recito e metti dipingo o disegno e avrai la verità di Hokusai e quella di Carlo, e di tanti altri. Ma se il monte Fuji si leva indenne dalle visioni di Hokusai, la Sainte-Victoire è restituita altro dalla visione di Cézanne ed è molto improbabile che una qualsiasi cosa esca indenne dalle visioni di Cattaneo….. Carlo sarebbe stato un fantastico assistente e trovatore di oggetti nei  cliquotages diretti da Tadeusz Kantor- Théâtre de la Mort , cartaccia, trucioli, bidoni, foto,manichini, e l’anima che attardata e irrequieta spipistrella in quegli addobbi di cataste per gli arcani riti dell’espressione. Teatro per ore d’aria all’interno della prigione Vita.

Guido Ceronetti

Cattaneo è autore singolare e coinvolgente. Porta un nome impegnativo, ma anche la sua pittura e la sua produzione grafica( inchiostri, pastelli, acquarelli e incisioni)- come subito notarono intellettuali di valsente come Ceronetti e Carlo Levi- si svolgono sotto le stesse insegne. I suoi fogli accennano a un turgore e a un affollarsi oscuro, greve. Ma la distinzione dei segni pittorici, tracciati su carta, e la forza dirompente dei fogli, non hanno conio ad alcun livello del discorso espressivo che non sia quello medesimo  di una poetica che, in tanto s’ingegna nelle proprie forme e modalità, in quanto più s’amalgama con la vita complessiva dell’universo cattaneoiano.

Floriano De Santi


Chissà se Cattaneo ha letto quel testo teatrale di Bernhard che si chiama Minetti , come il notissimo vecchio attore di questo nome che in questa piéce recita sé stesso ma anche la storia di un altro, e che circondato dalle maschere, sogna di poter indossare quella che Ensor ha dipinto una volta per lui e di recitare con quella maschera il Re Lear di Shakespeare. Ensor del resto è un nome che viene subito in mente guardando i quadri e disegni di Cattaneo,come il nome di Schiele o quello di Goya, gli unici pittori che in Antichi Maestri il musicologo-filosofo Reger salva dalle sue invettive contro la cultura dominante.

Eugenio Bernardi


COLOPHON

L’acquaforte originale contenuta in questa cartella, undicesima della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte su fondino di 240 x 300 mm su foglio 350 x 500 mm è stata impressa a Roma  nel dicembre 2004 su carta Magnani Pescia di 310 grammi, colore naturale, sui torchi di  Luigi Ferranti nella stamperia L’Acquaforte. Dei 100 esemplari  tirati,  80 hanno numerazione araba e sono destinati ai  Soci, 10 numerazione romana e 10 infine sono prove d’autore riservate all' Artista. I due testi di Antonino Cremona  appositamente scritti  per questo “Omaggio”, sono stati stampati da Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, nel mese di ottobre 2005.

Cartella N. 12 - Natale 2006: Giuseppe Appella / Edo Janich: "Lettera 22"

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Sciascia e l'incisione: l'attimo fuggente fermato sulla carta

Ho imparato a conoscere Leonardo Sciascia spulciando nel prezioso "Schedario" di Arnoldo Ciarrocchi. Prezioso non solo per ricostruire la storia delle sue incisioni, dal 1938 al 1992, quanto per le annotazioni che ad occhio inesperto potrebbero apparire maniacali se non inutili.

Ciarrocchi, scheda per scheda, seguendo i suggerimenti del C. A. P. [Carlo Alberto Petrucci], Direttore della Calcografia Nazionale, non annota solo il titolo, l'anno, le misure della lastra, gli stati e la tiratura in 16 o in 24 esemplari, qualche volta in 40, che solo raramente avrebbe completato, ma accanto ad ogni copia scrive il nome dell'acquirente e, in più occasioni, il giorno della consegna e la somma ricevuta. E così sappiamo che, nel 1952, il 28 marzo, Sciascia riceve, per cinquemila lire, l'esemplare 31/100 della serie Aria di Roma, del 1950; nel 1953, il 19 giugno, per diecimila lire, l'esemplare 17/40 de Il cortile delle monache (per alto), del 1939, il 3/VI dell'Autoritratto dietro lo specchio, del 1952, e i1 4/XX del secondo stato di Paese inciso lungo la Nazionale con un alberello o La stradina bianca, del 1950; nel 1954 una prova de I poveri che mangiano i bruscolini, del 1949; nel 1956, il 9 settembre, un s.[enza] n.[numero] di Alberi lungo il Chienti, del 1947; nel 1971, poco prima di Natale, il 3/18 di Susy, il 4/16 di Giuliana G. senza mani, l'1/6 della puntasecca Ritrattino di Maria Luisa, incise proprio quell'anno.

La consegna delle tre incisioni pone fine a un silenzio di quindici anni, anche se nel 1955 Sciascia ha avuto molta parte nella pubblicazione di Io incisore, uscito con le Edizioni Salvatore Sciascia a Caltanissetta come quaderno n. 18 della rivista "Galleria".

Il silenzio, la sorpresa dell'incontro e la spiegazione della stima di Sciascia per Ciarrocchi sono nelle pagine di una rivista e in una lettera.

Nell'agosto del 1971, sul n. 3 - 4 di "Civiltà delle Macchine" appare un testo di Ciarrocchi: Dall'incisione all'acquarello. Scrive: "L'incisione, come la pittura, deve essere ben condotta. Noi abbiamo rilevato nelle stampe di Morandi un sublime controllo dell'azione dell'acido.  Non è uno scherzo di cattivo gusto. Il controllo dell'azione dell'acido è un dono di Dio [...]. La poesia nasce da questo ineffabile rapporto di tempi di morsura [...]. Dal 1955 dipingo quasi esclusivamente all'acquarello. È pittura sottilissima come l'acqua di fonte, l'acqua di rose, la rugiada, l'acquavite, il vino bianco. È  pittura svelta. Permette di seguire nell'arco di una giornata l'esaltarsi e lo scolorarsi della luce. Segue altresì le variazioni d'umore, il mio, mutevolissimo. Il mio cuore è come una collina su cui l'ombra di una nube passa strisciando. Io sono un pittore di impressioni. Dipingo en plein air, sul motivo.

L'acquarello ha la sua stagione, l'estate, ed in una giornata le sue ore. Si può dipingere la mattina presto. Sono contrarie alla pittura all'acquarello le ore calde perché la carta si indurisce, l'acqua evapora troppo presto ed il colore si incenerisce. Sono altresì sconsigliabili le ore troppo prossime al tramonto perché l'atmosfera  è eccessivamente carica d'umidità".

Sciascia legge queste righe e il 10 novembre 1971, da Palermo, fa partire una lettera: "Caro Ciarrocchi, leggo su "Civiltà delle macchine" (una civiltà che non esiste) le tue note (di una civiltà che ancora esiste perché ci sono persone come te). Con grande piacere.

Sono stato sfortunato le volte che sono venuto a Roma: o ti ho cercato e non ti ho trovato, o non ho trovato il tempo di cercarti. Spero ci si possa vedere la prossima volta, tra non molto. Affettuosamente, tuo Leonardo Sciascia".

La civiltà di Ciarrocchi, nei vari aspetti spirituali, sociali e materiali della vita, è la stessa di Sciascia, proprio come la Sicilia e la memoria di Sciascia sono le Marche e la memoria di Ciarrocchi. L'uno si propone di leggere le stampe come libro, viceversa per l'altro che da ideale "amateur" tiene la sua raccolta nel cassetto del tavolino. Ogni tanto, soprattutto in occasione della visita degli amici, apre quel cassetto e trasferisce agli ospiti la lettura di quei tratti sottili, resistenti e spesso invisibili che animano il disegno tracciato sulla lastra e trasferito sul foglio di carta senza perdere quei trasalimenti intimi, quelle organiche pulsioni emotive colte nel motivo che improvvise felicità hanno portato alla forma, al vero che Brandi diceva "interiorizzato e commosso, sottratto all'attimo fuggente e riassorbito nell'attimo vitale".

E non è l'attimo fuggente che, sempre nel 1971, a L'Arco di Via Mario de' Fiori a Roma, ferma Sciascia davanti a Ballets-Minute di Nicolas De Staël con le acqueforti ricavate dai disegni  fatti in Sicilia nel 1953? La prima adesione di De Staël alla realtà viene analizzata nella sua essenza nel momento in cui affronta il paesaggio siciliano: qui lo spazio si fa immenso, utilizza forme geometriche purgate di ogni inutile orpello. L'attaccamento al dato naturale e alle strutture organiche dell'immagine segna la conquista di una sintesi formale e di un tono lirico tra i più alti della pittura moderna. Sciascia lo annota leggendo, anche sotto le apparenze, i perpetui giochi di forza usati da De Staël, avvistandone la fragilità "nel senso del buono, del sublime, dell'amore"

Di tutt'altro genere è la fragilità di André Dunoyer De Segonzac che nel dicembre del 1973, sempre a Roma, lo entusiasma con i tagli operati sulla lastra per restituire i contrasti della natura. Quante discussioni, fatte di molti silenzi e di pochi ma precisi commenti sulla frase dell'incisore ritenuto morto dagli stessi francesi che forse continuavano a rinfacciargli il "rappel à l'ordre" in senso espressionistico-naturalistico del lontano 1920, quando insieme a Boussignault, Marchand, Marc e Moreau  costituì "la banda nera": "Lo spirito della vera tradizione è di stare alla vita contemporanea come gli antichi stavano alla vita del loro tempo, senza alcuna imitazione o compromesso col passato".

La reazione anticubista di Dunoyer De Segonzac, la sua tensione a voler ricostituire una pittura basata su un naturalismo di derivazione cézanniana che, in un modo o nell'altro contaminava il revival realista del tempo, incuriosisce Leonardo. Un foglio accanto all'altro, cerca riscontri nella serie de Il Morin (1923), de Le spiagge (1935), de Le Georgiche (1947), negli incontri sul ring, nei soldati al fronte, nei nudi e nelle nature morte, in Isadora Duncan, e invece vi trova disinvoltura e freschezza. Il segno è privo di dissonanze, di contrasti, di eccessi, sempre omogeneo, unitario, istintivo, nato da una emozione suscitata da quella sorgente zampillante di impulsi sensibili che è la realtà. Impulsi tradotti in agili arabeschi, in linee austere come il colore delle sue opere a olio ma che del colore hanno assunto la trasparenza, in tratti disposti secondo una gerarchia di ritmi che si fanno ora teneri ora gravi e tendono sempre a riunire i molteplici elementi del paesaggio, in segni scintillanti, esplosivi, sonori ma senza arbitrarietà, che incatenano i piani, secondo un gioco sapiente di chiaroscuro, portando all'integrazione del nudo nel paesaggio, a quei passaggi sapienti disposti tra eccessi di sole e ombre di sottobosco.

La "libertà di mostrare armonie racchiuse", l'ansia di imprigionare l'attimo fragile del presente, la convinzione - aristocratica e popolare - che l'arte è l'immagine della vita interiore, non può non colpire Sciascia che certo la rilegge, anni dopo, nei fogli di Edo Janich pronto, ogni volta, a tradurre l'immaginazione nel disegno steso sulla lastra.

L'ora-luce che il giorno segna sulle cose osservate da Ciarrocchi, da De Staël e da Dunoyer De Segonzac, batte i suoi secondi anche per Janich. Edo si pone al centro di queste lancette che scandiscono il tempo, fa corrispondere queste battiti a quelli del cuore, dispone dei bianchi della carta per depositarvi tesori di fantasia e di scaltrezza, al punto da far emergere ciò che è stato omesso, ciò che è stato modificato o arricchito dall'osservazione del mondo visibile.

L'impianto generale, l'intelaiatura continuano ad avere un'importanza fondamentale nell'incisione di Edo, sia che guardi Roma, Venezia o Palermo. Più il tratto domina lo spazio,  più questo aumenta di risonanza e, di conseguenza, l'evocazione dei contrasti di natura, le sue alternative.

Il disegno, in Janich, è la coscienza della forma, anche se racchiusa nella piccola superficie di una lastra di rame che, raccogliendo le energie del pensiero roteante come un pianeta e le considerazioni di Leonardo Sciascia sullo stato attuale della letteratura, ne fa lo specchio della condizione dell'incisione "costretta a starsene fuori: con orecchie intente, sguardo acuto, sospettosa, guardinga, insicura, con soprassalti e freddo nelle ossa". Un'incisione, naturalmente, come piaceva a lui e non lontana dalle qualità della sua scrittura: schiva, lineare, priva di barocchismi, carica di pudori espressivi  che sono il segno di ogni linguaggio originale coltivato in solitudine..

Giuseppe Appella

  

Una lettera

Nello studio di Attardi,che mi ospitava amichevolmente,c'era una scala in ferro con ringhiera,appoggiata ad un muro intonacato a calce in modo grezzo.

Questa portava ad un ballatoio dove il caro Ugo dipingeva.

Salendo questa rampa, a destra c'erano delle incisioni che assecondavano i gradini e

tra queste,due o tre acqueforti che avevo realizzato poco tempo prima.

Un giorno,mentre ero assente, e il fatto era abbastanza raro,il mio amico,che aveva

vinto il premio  "Viareggio" con il libro "L'erede selvaggio", mi disse che era passato

Leonardo Sciascia  a salutarlo.

In quella occasione egli mi riferì che Leonardo,avendo notato quelle incisioni,avrebbe

avuto piacere di organizzarmi una "personale" a Palermo.

Questa venne inaugurata nel mese di gennaio del millenovecentosettantuno ed in quella circostanza incontrai per la prima volta Sciascia.

Questo,ma non solo questo,era Leonardo,che provava piacere ad aiutare le persone che

reputava dotate :campione di generosità,prototipo umano purtroppo  in via di estinzione.

Caro Leonardo ci manchi molto.

Con affetto,

EDO


 janich_300.jpg

Titolo: Lettera 22

Autore: Edo Janich

Testo di: Giuseppe Appella

Misure Lastra: cm 19,5x21

NOTA BIOGRAFICA SULL'ARTISTA

Edo Janich, incisore e scultore, è nato a Valvasone (Pordenone) nel 1943. Sin dal 1962 si interessa alla scultura e solo anni dopo inizierà ad occuparsi di incisione. Riprenderà nel 1976 e negli anni successivi alternerà le due attività. Ha tenuto oltre venti  mostre personali in Europa e, nel corso di quasi quarant'anni, realizzato circa quattrocento lastre all'acquaforte, stampate da importanti maestri stampatori e raccolte per lo più in cartelle, tra le quali spicca l'introvabile Les automates (1974), con un testo nel quale Leonardo Sciascia lo elegge a sedere tra i pochissimi incisori veri annotando «Scomparsi Bartolini, Morandi e Viviani, in Italia bastano le dita di una mano a contarli: e magari fermandoci al quarto,che è certamente il giovane Janich». Da oltre trent'anni collabora con l'editore Sellerio di Palermo per il quale ha realizzato dal 1972 al 1987 numerose lastre riprodotte in copertina per la collana "La civiltà perfezionata" illustrata con incisioni originali. Della sua opera hanno scritto, oltre a Sciascia, Enzo Siciliano, Alfonso Gatto, Guido Giuffré, Renzo Vespignani, Ugo Attardi.

 

COLOPHON

L'acquaforte originale contenuta in questa cartella, dodicesima della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell'Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte su fondino di 195 x  210 mm, con ritocchi a bulino e puntasecca, è stata impressa su foglio di 350 x 500 mm carta Magnani Pescia di 310 grammi, colore naturale, sui torchi di  Antonio Sannino nella stamperia Il Cedro, Roma , nel luglio 2006. Dei 119 esemplari  tirati,  99 hanno numerazione araba e sono destinati ai  Soci, 10 numerazione romana e 10 infine sono prove d'autore riservate all' Artista. I testi di Giuseppe Appella e Edo Janich appositamente scritti  per questo "Omaggio"sono stati stampati da Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, nel mese di novembre 2006.


Cartella N. 13 - Natale 2007: Maurilio Catalano / Carla Horat: "L'albero della solitudine"

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I pomeriggi di via Mazzini

Intervista a Maurilio Catalano   Credo che tutte le città italiane abbiano una strada o piazza intitolate a Giuseppe Mazzini: Palermo non fa eccezione. La via Mazzini di Palermo annovera tra i suoi abitanti la galleria Arte al Borgo, gestita e diretta da Maurilio Catalano, artista e docente presso l'Accademia di Belle Arti di Palermo. È da lui che mi sto dirigendo in questo caldo pomeriggio dell'estate 2007.Il motivo di questa visita è Leonardo Sciascia. Maurilio mi attende all'interno. Saliamo su un soppalco. Rivivo con lo sguardo l'interno della galleria con il suo arredamento e nitido riappare il ricordo, anche visivo, dei pomeriggi in cui quella stanza spontaneamente si trasformava in un salotto culturale e artistico sotto la bacchetta di un grande uomo e maestro.Ed eccoci a conversare con Maurilio, in un clima affollato di ricordi soffusi di nostalgia.

 

- Come e perché è avvenuto l'incontro tra Sciascia e la tua galleria Arte al Borgo? Quello di Arte al Borgo non è il primo salotto culturale creato da Sciascia. A Caltanissetta, durante la permanenza in quella città, attivò qualcosa di simile presso una libreria gestita dal Commendatore Sciascia, omonimo, ma non parente di Leonardo. Quando si trasferì a Palermo, iniziò questa frequentazione di Arte al Borgo, perché qualcuno gliene aveva parlato e lui era spinto dal desiderio di costituire  il  circolo del paese. Nei paesi c'erano questi circoli. A questo proposito ricordo che ci raccontava un fatto grazioso: ad Agrigento  Pirandello frequentava il Circolo dei Nobili, dove apparentemente e distrattamente leggeva il giornale, ma in realtà ascoltava tutte le dicerie degli altri, che poi diventavano fatti e personaggi dei suoi racconti. Quando era a Palermo Sciascia veniva quasi sempre alle cinque del pomeriggio, puntuale. Rimaneva per un paio d'ore. Si parlava di quello che era avvenuto durante la giornata, dei fatti di cronaca, di politica, di arte, di letteratura. Una specie di tavola rotonda, a volte salottiera, con interlocutori spesso abitudinari, talora particolarmente affermati in campo artistico o letterario.A questo proposito ricordo un incontro con Guttuso durante il quale parlarono di una loro conversazione con Enrico Berlinguer,  in cui tutti e tre si erano trovati d'accordo nel ritenere che i brigatisti rossi avessero stretti legami con l'Est. In seno alla Commissione Moro, Sciascia, presente come rappresentante del Partito Radicale, riferì di questo colloquio. Berlinguer lo querelò per falso: il segretario del maggior partito di sinistra d'Europa non poteva ammettere di aver fatto tali dichiarazioni.Guttuso, sentito a riguardo, scelse la versione del potere forte di un segretario di partito. In seguito la questione si risolse in favore di Sciascia anche per la testimonianza di chi, ed ero io, aveva assistito e udito quelle affermazioni. Sciascia rimase molto male per la stima e l'affetto che portava a Guttuso, da cui si sentì tradito, mentre apprezzò molto, e lo scrisse sull'Espresso, la difesa che Antonello Trombadori, in altre occasioni, pur essendo di sinistra, fece di lui in Parlamento.    - A proposito di Antonello Trombadori mi pare di capire che c'era un rapporto di amicizia e stima con Sciascia. Esattamente, un forte rapporto di amicizia e stima. Infatti in più occasioni Sciascia indirizzò degli artisti ad Antonello Trombadori, per ottenere un giudizio sulle loro opere. Più di una volta si incontrarono qui ad Arte al Borgo e ne uscirono pomeriggi indimenticabili. Così fu in occasione della preparazione della mostra delle Incisioni francesi dell'Ottocento, a cui intervenne anche Ferdinando Scianna. Lo studio, l'analisi, le comparazioni, l'approfondimento storico-filosofico e culturale nel contesto della visione di tale opere aveva trasformato la galleria in una scuola.

 

- Da quanto mi dicevi non si parlava solo di arte ma , in questo tuo circolo-salotto, gli argomenti erano disparati, anche perché i partecipanti erano culturalmente e professionalmente diversi. Certamente. Accanto a lui si sedevano figure come Gesualdo Bufalino, Antonello Trombadori, Ferdinando Scianna, il poeta Ignazio Buttitta, Giancarlo Cazzaniga, suo ospite fisso nella casa di Racalmuto il giorno di Natale, Leonardo Castellani, il Giudice Nasca, l'Avv. Perna e altri: insomma dove c'era lui c'era tanta bellissima gente. Ricordo un pomeriggio qui in galleria, quando Leonardo Sciascia e Ubaldo Mirabelli passarono ore a confrontarsi sulle edizioni di Cervantes, sulle copertine, sui colori, sul testo. Agli sciocchi poteva sembrare una serata salottiera come altre, ma per chi aveva sensibilità, curiosità e consapevolezza della fortuna di avere con lui una fonte di arricchimento, era uno spettacolo continuo. Lo si ascoltava incantati, come un bambino s'incanta, con lo sguardo fisso, al racconto di un vecchio marinaio.

 

- Mi pare che leggendo i suoi libri non sempre questa immagine dell'uomo Sciascia traspaia con evidenza. C'era in lui una ritrosia a manifestarsi in tutta la sua grandezza, schivo dalla luce dei riflettori, consapevole del suo valore, ma infastidito dall'idea di manifestarlo agli altri. Per questo ti chiedo quale fosse il suo comportamento di fronte a letterati o artisti che chiedevano più o meno esplicitamente di conoscere il suo giudizio sulla loro opera. Sciascia non era uomo di grandi discorsi, bisognava capire le sue mezze frasi e i suoi mugugnamenti di approvazione o i suoi silenzi. Per esempio diceva: "Ho visto delle incisioni di un certo artista", non una parola di più. Stava a chi era in grado di capirlo aggiungere "Perché non fare una mostra?". L'idea prendeva corpo e si realizzava, ma sempre con la delicatezza di chi propone, mai di chi impone. Posso dire che era veramente un padrino, non come si intende in Sicilia, ma all'italiana, nel senso di uno che ti sostiene, ti aiuta, anche  economicamente, come un mecenate. Se gli piaceva un'opera non la chiedeva, tutti gliel'avrebbero regalata. Lui o la comprava senza dirlo all'autore o proponeva uno scambio con opere di sua proprietà. Come avvenne quando scambiò una incisione di Morandi di sua proprietà con un'altra di Luigi Bartolini. Anche con Carla Horat si comportò così: comprò un'incisione dicendomi di non dirglielo, poi cambiò idea, firmando un assegno che lei naturalmente non volle mai riscuotere. È l'acquaforte contenuta in questa cartella.

 

- Tra le numerose mostre allestite nella tua Galleria puoi citarne qualcuna in cui più attenta e viva sia stata la partecipazione di Sciascia? Ricordo quella di Tono Zancanaro che era molto apprezzato da Leonardo, con cui aveva un rapporto di grande amicizia. Tono era un uomo che aveva arricchito la sua vita, oltre che con l'arte, anche con una grande semplicità e generosità: durante le ore strascorse in galleria, spesso, faceva disegni che regolarmente regalava, seguito dallo sguardo compiaciuto di Leonardo.Di un altro artista, Ciarrocchi, ricordo una mostra di splendidi acquarelli. Sciascia, pur avendo una particolare simpatia per la grafica rispetto alla pittura, la trovò molto bella e venne a rivederla più di una volta.Ancora mi piace citare Nunzio Gulino, ottimo grafico prevalentemente figurativo. Sciascia dimostrava maggior simpatia per il figurativo rispetto al puro astratto, anche se sapeva cogliere e godere della purezza del segno all'acquaforte e ancor più dell'incisione a bulino.

 

- Nella tua galleria-salotto gravitavano molte persone, come abbiamo visto, diverse tra loro e naturalmente animate da differenti interessi, a volte penso anche personali. Qual era il comportamento di Sciascia ? Leonardo era un profondo conoscitore degli uomini, come ampiamente evidenziato dalla introspezione psicologica che traspare da tutti i suoi scritti: sapeva tacere o bonariamente sorridere di fronte ai limiti di alcuni, mentre sorrideva con soddisfazione di fronte ai meriti di altri. Certo non amava, anche se fingeva di non coglierli, l'adulazione e il servilismo.     - Si può dire che amava più dare che ricevere? Lui era felice quando poteva donare, ma altrettanto lo era se riceveva qualcosa che dimostrasse attenzione, affetto, quasi complicità nell'amare qualcosa. Non erano cose importanti in senso economico, anzi spesso si trattava di piccoli gesti, di piccole cose, ma che gli facevano capire che avevi colto un suo desiderio, si trattasse anche solo di un mazzetto di asparagi selvatici.

 - Possiamo dire che era un uomo capace di grandi, forti e crude decisioni  generate però dalla delusione di un animo mite, dolce, profondamente rispettoso e paladino del diritto alla libertà di ogni uomo? Sì, certo, e per cercare di chiarire meglio questo aspetto di Sciascia vorrei citare un aneddoto raccontatomi da mio padre: una persona anziana e un po' malconcia chiede l'elemosina all'uscita di una chiesa. Ad un certo punto si apparta di qualche metro per mangiare qualcosa, quando un  passante lo chiama per dargli l'elemosina. Al che lui risponde: "Non vedi? Sto mangiando". Ebbene Sciascia non lo avrebbe mai chiamato, ma avrebbe atteso un momento più opportuno in rispetto della sua privacy, anche se si trattava di un mendicante.

 

- A parte i grandi maestri del passato, fra i contemporanei pittori o grafici, hai colto particolari apprezzamenti e simpatia da parte sua? Lui considerava tutti e non dava giudizi di preferenza, forse perché si rendeva conto che la sua valutazione avrebbe pesato positivamente o negativamente sull'autore. Con un artista c'era una simpatia particolare ed era Ferdinando Scianna di cui ammirava i ritratti e con cui amava discorrere a lungo. Ricordo anche come Sciascia apprezzasse molto Clerici sia come artista, sia come uomo per la sua cultura e raffinatezza. Questi venne più volte in Galleria, ma non vi fece mai una mostra. Di un artista apprezzava soprattutto l'impegno la personalità e la professionalità. Ricordo di avergli chiesto cosa pensasse delle  incisioni di Carla Horat. Rispose con tre mugugni, che conoscendolo, interpretai come un giudizio positivo, perché ne ammirava l'impegno, la ricerca continua, il suo evolversi, la sua professionalità. Tre mugugni, ma dopo qualche giorno un bellissimo testo di presentazione per una cartella, Gli Alberi. Non l'avrebbe mai scritto se non fosse stato convinto del valore dell'artista.

 

- Per merito di Sciascia la tua galleria era una piccola fucina di idee e mi pare di ricordare che ci fu anche un momento di editoria. È vero. Un giorno si pensò di fare, come lui le definì, "delle paginette": racconti corredati da una acquaforte, una simbiosi che lui amava. Tra le altre ricordo un'intervista fatta a De Chirico. Erano cinque o sei cartelle , con domande di Sciascia che riempivano mezza pagina e la risposta che De Chirico sintetizzava in due righe. Tra le domande di Sciascia una mi è rimasta impressa: "Maestro lei vede molta televisione, perché?" "Perché ogni giorno ho bisogno di un bagno di stupidità".      - Maurilio tu hai avuto la fortuna di aver frequentato per un tempo lungo e generoso Leonardo Sciascia; puoi dire che  sia stato un grande compagno di viaggio? Voglio dire che è stato un grande maestro di viaggio, anche se non era semplice camminargli accanto; diceva De Crescenzo che Dio ha creato gli uomini e poi i Cherubini. Sciascia era un Cherubino.

Renato Albiero

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Titolo: L'albero della solitudine 

Autore: Carla Horat

Testo di: Maurilio Catalano 

Misure Lastra: cm 26x21,5

Appunti dal mio diario

Oggi sono passata in Galleria (Arte al Borgo). Lui era già là. Appena entrata non l'ho neppure visto. Ne sono affascinata, incantata. Parla sempre in tono sommesso, quasi dimesso. Non dice mai una parola di troppo. Emana cultura. "E' l'unico vizio che ho" dice riferendosi al suo amore di collezionare libri e stampe "oltre al fumo" soggiunge ridendo (fuma sigarette inglesi, le Benson, mi pare). Ha parlato di Vittorini, Pavese, Brancati. " Pavese era un pover'uomo". Ho preso il coraggio a due mani, dicendogli che specialmente in gioventù l'ho amato moltissimo, che mi piace ancora moltissimo. Fra i tre il maggiore è Brancati, secondo lui, anche se era fascista. Ha parlato di Longanesi come di persona intelligentissima. Ha parlato di Borges dicendo tra l'altro di possedere un suo scritto inedito. Ne era entrato in possesso tramite un altro poeta di cui non ho capito il nome. A un tratto si è rivolto a me chiedendomi se volessi fare un'incisione per Sellerio. Grande entusiasmo da parte mia, che però come al solito non sarò riuscita a manifestare. Ha replicato che avrebbe pensato a un autore adatto. Poi si è congratulato per la mia nomina all'Accademia. Sono al settimo cielo: non posso credere che un uomo così si interessi del mio lavoro.

L'ultima volta

Non avevo mai scritto della nostra ultima visita a lui.

Da parecchio tempo desideravo rivederlo. Pensavo spesso a lui, forse quotidianamente, con sentimenti di apprensione, ansia e nostalgia. E quella domenica decisi di non rinviare più e,  vincendo la mia riservatezza, telefonai a casa sua per annunciare la nostra visita. L'ora era infame: arrivammo verso le tredici. Ci accolse Maria, comunicandoci che lui era,  naturalmente,  a letto. Ci sedemmo in salotto, dove insieme avevamo trascorso ore indimenticabili e iniziammo penosamente a conversare. L'argomento dominante fu la sua malattia. Maria ci disse tra l'altro che lui non voleva più sottoporsi a dialisi, perché da ogni seduta, invece di sentirsi meglio, usciva sempre più fiaccato e che inoltre durante questo trattamento soffriva molto. Ogni tanto Maria si alzava e si recava di là a controllare se si fosse svegliato. Finalmente una volta tornò dicendo che aveva gli occhi aperti e che gli aveva chiesto se si sentiva di vederci e che la risposta era stata affermativa. Con molta emozione Renato e io, guidati da Maria, andammo nella sua cameretta. Sembrava una camera di ospedale tanto era piena di macchinari. Lui era tutto infilato sotto le coperte. Sporgeva soltanto la testa. L'aspetto era, o meglio sembrava, visto così, quello di sempre. Non appariva particolarmente sofferente. Cominciammo a parlare.

 Perché ho lasciato trascorrere tanto tempo prima di fissare sulla carta e quindi nella memoria questi ricordi? Avrei custodito un maggior numero di particolari preziosi da cullare con doloroso amore.

Si parlò naturalmente della sua malattia. Era stanco, non voleva più lottare. Come un bambino disse a Renato che non voleva più fare la dialisi,non voleva più sentire dolore. Renato gli parlò di uno specialista di Catania, che isolando i nervi toglieva il dolore. E sembrò riuscire a convincerlo di far scendere da Padova un suo amico nefrologo, Tony Bonadonna. "Sì, ma non voglio più fare la dialisi", continuava a ripetere ostinatamente. Io non ne potevo più dal dolore. Renato glielo promise. Ma gli chiese anche se sapesse cosa questo significasse. Lui rispose che naturalmente ne era consapevole. A un certo punto affermò: "Il corpo sa quello che ha, quello che sta succedendo in lui. Il corpo sa quando deve morire". Io ero straziata. Da sotto le lenzuola spuntò una mano. Vidi il polso: magrissimo, sottilissimo. Dal volto non si notava quanto fosse dimagrito, aveva sempre quell'aspetto un po' gonfio, come prima della malattia. Non sapevo come fare per trattenere le lacrime. Cercavo di non ascoltare, di estraniarmi. Ma subito me ne pentivo e bevevo ogni sua parola.

Maria rivolgendosi a noi riportò il fatto che pochi giorni prima lui stava meglio, che era venuta Elvira e si era alzato ed era andato di là a parlare di letteratura. Lui, piangendo, puntualizzò: "Non è che stavo meglio, stavo malissimo. Ma ho parlato per tutta la vita di letteratura, perché non dovrei parlarne ora?"

Leonardo piangeva come un bambino.

Prima di uscire gli presi la mano, la strinsi ( ma non troppo forte) e affondai la bocca nelle sue guanciotte.

Erano le sedici circa. Era di domenica.

La mattina dopo verso le nove mia madre mi chiamò al telefono chiedendomi se avevo sentito chi era morto.

Carla Horat,

Palermo, novembre 1991

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA

Carla Horat, incisore e pittrice, è nata a Basilea. Figlia d'arte (il padre Theo è un noto acquerellista svizzero), si diploma a Verona all'Accademia di Belle Arti e dal 1981 risiede a Palermo dove ottiene la cattedra di Tecniche dell'Incisione presso la locale accademia. La sua prima mostra è del 1978. Nel 1984 una sua incisione correda l'edizione di testa delle Cronache mondane di Marcel Proust pubblicata da Sellerio nella collana de "La civiltà perfezionata". Dal 1986  insegna anche al Centro Internazionale della Grafica di Venezia con il quale pubblica due libri d'artista e una decina di cartelle di incisioni, tra cui Gli Alberi di Horat, con quattro sue acqueforti e un testo di Leonardo Sciascia. Il suo percorso artistico attinge alle tecniche più diverse, dalla matita all'acquaforte, dalla litografia al bulino, dal monotipo al collage, fino alle nuove tecniche su plexiglas e all'importante serie di dipinti culminata nell'omaggio a Maria Callas (Lincoln Centre, New York, 2000). Ha tenuto mostre collettive e personali in Italia e all'estero. Della sua opera hanno scritto, oltre a Sciascia, Enrico Baj, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Pippo Gambino, Antonello Trombadori.

[...] Ancor maggiore stupore mi ha colto sfogliando le cartelle di incisioni "all'acquaforte"di Carla Horat Albiero, e sono certo che non minore sarà lo stupore di Sciascia che le è anche concittadino. Come si spiega che un'artista di così chiara natura poetica e capacità realizzatrice sia rimasta finora ignota ?....Carla Horat incide in Sicilia i suoi "ricordi di altrove". È un altrove di "genere nero" ( un altrove geografico - il nord- e poetico che arriva fino a Klinger e alla sua storia incisa del "Guanto smarrito")..."

Antonello Trombadori

Gli alberi di Carla Horat Albiero. E immediatamente - se appena si ha una certa dimestichezza con l'arte dell'incidere in acquaforte, con la sua storia- si pensa a Jean Frélaut, "peintre-graveur" che dai primi del secolo fin quasi ai nostri anni ha inciso alberi [...] Entrambi - Frélaut come Carla Horat- sembrano prediligere lo stesso tipo di albero: quello che, spoglio, ha rami dritti e sottili che fanno raggiera. È un albero che, per me siciliano, evoca il nord, i lunghi inverni, i cieli diafani, le nebbie.

Leonardo Sciascia

Tra i moti del cuore e la luce fredda della ragione, Carla Horat Albiero inscrive il firmamento dei suoi astri, la degradazione dei volti, la protesta degli alberi..

Enrico Baj

[...] un'occasione bellissima mi fa indulgere, davanti alle gremite cartelle di Carla Horat, la cui ispirazione di acquafortista principe è così visionaria e pungente da ricordare maestri quali Ensor, Klinger, ma più specialmente Alfred Kubin.[..] Siamo,come si vede nell'area dell'espressionismo mitteleuropeo.

Gesualdo Bufalino

Colophon

L'acquaforte contenuta in questa cartella, tredicesima della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell'Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte di 260 x  215 mm è stata impressa su foglio di 350 x 500 mm carta Hahnemühle di sui torchi dell'artista a Palermo tra luglio e settembre 2007. Dei 110 esemplari  tirati,  80 hanno numerazione araba e sono destinati ai  Soci, 20 numerazione romana e 10 infine sono prove d'autore riservate all' Artista. I testi di Renato Albiero, Maurilio Catalano e Carla Horat appositamente scritti  per questo "Omaggio"sono stati stampati da Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, nel mese di novembre 2007.

Cartella N.16 - Natale 2010: Marzia Faietti / Mario Francesconi: "Indizi"

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Indizi acquaforte di Mario Francesconi

Carlo Sisi, direttore della Galleria di Arte Moderna, Palazzo Pitti, e Paolo Squillacioti, curatore dell'opera di Sciascia in corso di pubblicazione presso Adelphi, hanno presentato il 30 novembre 2010 alle 17.30 alla Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux (Piazza Strozzi)di Firenze la sedicesima cartella della collana Omaggio a Sciascia

Presenti l'artista, Mario Francesconi, autore dell'acquaforte che dà anche il titolo alla cartella, Marzia Faietti, direttrice del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e autrice del saggio Linee virtuose in bianco e nero che accompagna l'incisione, e il curatore della collana Francesco Izzo.

Dopo l’edizione straordinaria 2009 della “cartella del ventennale” della morte di Leonardo Sciascia, “Due cartoline dal mio paese”,  il 2010 ha segnato  un’inedita incursione della  collana nell’esperienza artistica novecentesca, tra mondo della figurazione e sperimentazione, tra tradizione e innovazione, nel segno della linea quale cifra del disegno e nella intimità di rapporti tra letteratura e gravure .

Nella sua sedicesima cartella, OMAGGIO A SCIASCIA ospita appunto un artista affatto fuori del comune, pittore, scultore  e molto altro ancora.Versiliese, apprezzato sin dagli esordi da Roberto Longhi e Carlo Carrà, Mario Francesconi viaggia da un cinquantennio  nella pittura,nelle acqueforti, nei libri d’artista,nei preziosi esemplari unici che confeziona fin nelle rilegature,  sempre in compagnia della poesia, della letteratura,da Sandro Penna a Samuel Beckett, con una teoria di testimoni ed estimatori di eccezione: Emilio Villa ,Alfonso Gatto, Mino Maccari,Moses Levy, Cesare Zavattini,Leonida Rèpaci,Romano Bilenchi, Cesare Garboli,Sandro Penna,Mario Luzi, per citare i maggiori. Sarà Leonardo Sciascia a presentarlo nel 1968 a Palermo ,in occasione di una mostra a La Tavolozza, per sottolineare la capacità dell’artista di affrontare e rappresentare  “sottilmente e maliziosamente” la realtà delle cose, per ridurla  “in parvenze, in illusioni, in astrazioni”,sottolineando che “.. i cretini ritengono che si possano chiudere i conti con la realtà semplicemente negandosi a rappresentarla,affondano come lo struzzo la testa nella sabbia”.

L’acquaforte della cartella è affiancata da un testo di Marzia Faietti, direttrice del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze, che esplora la passione sciasciana per l’incisione nell’essenzialità del linguaggio dei segni, svolgendo riflessioni che spaziano da Alberti ed Erasmo a Dürer, da Baudelaire, fino all’ amatissimo Alain e, naturalmente, Paul Valèry. La cartella è impreziosita da un ricordo personale di Sciascia, quasi uno schizzo, dello stesso Mario Francesconi.

L’acquaforte che Mario Francesconi  ha realizzato, dal titolo Indizi, riesce per magia ad evocare - sono ancora parole di Sciascia quelle a cui attingiamo-  un “processo di assidua e sagace selezione, di rarefazione”.

 

Ecco i dati tecnici dell’incisione:

 

Calcografia a due lastre, di formato 310 x 225 mm, impressa su fogli 350 x 500 mm di carta Sicars, 600 grammi, con i lati sfrangiati, manufatta dalle Cartiere di Sicilia. Su ogni foglio è stato applicato un fondo di carta Vaticano.

 

Tiratura di 75 esemplari, di  cui 60 hanno numerazione araba destinati ai  Soci

 

 

 

                      10 numerazione romana e 5 infine sono prove d’autore riservate all' Artista

 

Come per tutte le incisioni, le fotografie ed i testi delle quindici che l’hanno preceduta, anche la realizzazione di questa sedicesima cartella  è  resa possibile solo grazie alla generosità dell’artista e dell’autore che hanno rinunciato ad ogni compenso, nel segno di quel legame affettivo che OMAGGIO A SCIASCIA cerca di mantenere verso la memoria di Leonardo Sciascia. Coperti i costi di tiratura,stampa, tipografia e distribuzione, gli introiti derivati dalla cessione della cartella ai soci vanno ad arricchire il fondo del  « Premio Leonardo Sciascia amateur d’estampes » giunto alla sesta edizione nonchè a finanziare le iniziative  degli Amici di Sciascia.

 

Come ottenere la cartella 2010 ?

 

Come per le precedenti cartelle, anche quella di quest’anno è fuori commercio, appannaggio esclusivo degli iscritti alla associazione AMICI DI SCIASCIA in regola coi versamenti della quota associativa annuale che,secondo la deliberazione dell’ultima assemblea prevede,nella cosiddetta formula di PACCHETTO COMPLETO (quota minima di 300,00 €) di ricevere senza ulteriori aggravi di spesa(compresi perciò anche quelli postali) , un esemplare della cartella come parte integrante dei servizi offerti ai soci :pubblicazioni,accesso all’area Web riservata,servizio bibliografico,etc.

 

                                                                   IMPORTANTE

Rispetto al passato da quest’anno non occorre una prenotazione ad hoc della cartella, separata dall’iscrizione o dal rinnovo all’Associazione Amici di Sciascia.

Basta infatti iscriversi o rinnovare subito ,nella formula di PACCHETTO COMPLETO , effettuando subito il versamento, per ricevere d’ufficio la propria cartella a domicilio.

Dagli inizi del 2011 in avanti ,la singola cartella sarà acquistabile dai soci -al pari delle altre che l'hanno preceduta- all'importo di 300,00 € che viene assegnato a ciascuna delle cartelle arretrate.

 Essendo la tiratura effettivamente disponibile per i soci limitata a 50 esemplari (i primi dieci esemplari di ogni incisione nella numerazione araba vengono infatti riservati all’archivio storico dell’Associazione)è importante iscriversi subito agli Amici di Sciascia per non correre il rischio che la cartella sia esaurita.

 

Si ricorda che per il pagamento dell’iscrizione/rinnovo  all’Associazione la forma più sicura ed immediata resta  il sistema PayPal per il quale vanno eseguite  solo tre semplici operazioni:

 

  1. Un “clic” su  http://www.amicisciascia.it/iscrizione-rapida.html
  2. La scelta dell’opzione “PACCHETTO COMPLETO”
  3. La scelta di addebito contestuale sulla carta di credito da Lei posseduta

 

In questo modo, ci si garantisce il rinnovo di adesione agli Amici di Sciascia per l'anno solare e la contestuale prenotazione del proprio esemplare numerato e firmato della cartella dinquell'anno,che verrà inviata  d’ufficio all’indirizzo indicato dall'ordinante.Se si preferissero altre forme di pagamento (conto corrente postale n° 4 4 8 4 6 0 8 7 oppure bonifico bancario il cui IBAN è : IT 21 O 02008 01671 00000 4594688 , sempre rispettivamente  intestati ad Associazione Amici di Leonardo Sciascia) ciò è naturalmente possibile. In tal caso,stanti i tempi di accredito,viene richiesto al Socio di segnalare subito per e mail al curatore della collana (cartelle@amicisciascia.it o posta prioritaria : Francesco Izzo - Via G. Massaia, 22-  50134 Firenze) la propria decisione.  

Per venire incontro alle esigenze economiche dei propri associati,gli Amici di Sciascia offrono eccezionalmente l’opzione di suddividere il versamento della quota minima annuale di adesione di PACCHETTO COMPLETO (per totali 300,00 €)  anche in due parti.

Resta infine ,come per il passato, la possibilità di acquistare  cartelle aggiuntive a quella inviata d’ufficio con l’iscrizione,e questo sempre in base alla disponibilità. Le copie aggiuntive vengono cedute a un prezzo assai più basso del PACCHETTO COMPLETO. Per informazioni in merito rivolgersi a: cartelle@amicisciascia.it

 

A tutti gli associati  che si siano già iscritti o si iscrivono fino al 31 dicembre 2010  agli Amici di Sciascia con la formula PACCHETTO COMPLETO  viene inviata in omaggio una copia (con dedica autografa dell’artista) dello splendido catalogo della mostra che Mario Francesconi ha tenuto a Palazzo Medici Riccardi ,Firenze, dal 28 maggio al 15 luglio 2010, dal titolo “Mario Francesconi- Viaggio 1960-2010” (Maschietto Editore, Firenze).

 

                                                                            *****

 

Si ricorda ai soci che sono ancora disponibili alcuni esemplari della splendida CARTELLA DEL VENTENNALE “DUE CARTOLINE DAL MIO PAESE” con le otto incisioni dei maestri giurati del Premio Sciascia e il testo inedito di Leonardo Sciascia.

 

Per ogni informazione relativa anche alle cartelle pubblicate negli anni scorsi,ci si può rivolgere a cartelle@amicisciascia.it

 

Cartella N. 14 - Natale 2008: Sebastiano Grasso / Federica Galli: "La piccola riva"

Cartella N. 15 - Natale 2009: Speciale per il ventennale della morte di Leonardo Sciascia: "Due cartoline del mio paese"

Cartella N. 17 - Natale 2011: Lea Vergine / Gaetano Tranchino: "Il gesto"

Cartella N. 18 - Estate 2012: Giuseppe Quatriglio / Foto Leonardo Sciascia: "Un amabile intenditore"

La nuova cartella OMAGGIO A SCIASCIA, con la foto che gli piaceva di più...

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La nuova cartella OMAGGIO A SCIASCIA, con la foto che gli piaceva di più...

Per riceverla in omaggio, basta rinnovare o aderire subito agli Amici di Sciascia per il 2013 !

Nel 1992 la Fondazione L. Sciascia e la Fondazione G. Whitaker decisero di realizzare una mostra fotografica sullo scrittore, morto nel novembre di due anni prima, affidandone a me la cura. Raccolsi lì quelle che considerai le immagini più significative, e fra esse, naturalmente, quella di questa cartella. In molte fotografie lo scrittore è ritratto mentre fuma, ma fra queste l’immagine di Carla De Gregorio ha un posto particolare. È quella che a Sciascia piaceva di più”.

Così Diego Mormorio scrive nel testo associato alla cartella intitolata “Il valore del silenzio” che, diciannovesima della collana OMAGGIO A SCIASCIA, esce a settembre per le consuete cure di Francesco Izzo. Il ritratto in bianco e nero contenuto nella cartella è uno degli scatti domestici realizzati nel gennaio 1985 da Carla De Gregorio a Racalmuto, nella casa di campagna dello scrittore. Alcuni degli scatti furono pubblicati dal settimanale “Epoca” ma non questo, evanescente quanto ricercato e carico di suggestione al punto da avere ispirato il pittore e incisore Agostino Arrivabene a cavarne un disegno prima e un’acquaforte (dal titolo Effluvi düreriani) diventata l’emblema della rivista di studi sciasciani TODOMODO, dove troneggia in copertina.

La fotografia (35 x 27 cm) è stata stampata nel luglio 2013 a Palermo, con la competente supervisione di Enzo Brai, nell’omonimo studio fotografico, su carta Fine Art da 310 grammi, e montata su un cartoncino corolla avorio, di formato 35 x 50 cm. Dei complessivi 90 esemplari numerati e firmati dall’Autrice, 70 sono in numeri arabi riservati ai soci, 15 in numeri romani e 5 HC destinati all’Autrice. Il testo scritto da Diego Mormorio accompagnato da una “Notizia” del curatore ed un profilo biografico dell’Autrice, è stampato da Bandecchi & Vivaldi, a Pontedera.

Come sempre, la cartella - con un esemplare sciolto del ritratto di Sciascia ed il testo di Mormorio- non è in vendita. Essa è invece riservata in esclusiva ai soli soci che siano in regola coi versamenti 2013 agli Amici di Sciascia ed abbiano optato per la formula del cosiddetto “Pacchetto completo” (quota minima 300.00€/anno). Per rinnovare (o aderire per la prima volta agli Amici di Sciascia) è semplice: basta cliccare qui e seguire le semplici indicazioni che permettono on line immediatamente l’adesione con addebito sulla carta di credito. In alternativa è naturalmente sempre possibile regolare il pagamento con un bonifico bancario o un versamento sul conto corrente postale dell’Associazione.

La rarità e bellezza del ritratto fotografico e la sua tiratura limitata suggeriscono una prenotazione immediata a tutti gli amateurs che volessero assicurarsene un esemplare. Per ulteriori informazioni basta una mail qui e ora a: estampes@amicisciascia.it


Cartella N. 20 - Estate 2014: Assadour, Ceccotti, Horat, Tolomeo: "Somiglia, ecco tutto"

Cartella Omaggio a Sciascia 2014: "Somiglia, ecco tutto"

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Cartella Omaggio a Sciascia 2014:

Ecco le principali caratteristiche della prossima cartella, la ventesima della collana “Omaggio a Sciascia”, riservata a chiunque rinnovi o aderisca per il 2014 all’Associazione come socio Pacchetto Completo. Riproponiamo le  informazioni e le immagini fornite in anteprima da Francesco Izzo, in qualità di curatore, all’Assemblea di Palermo del 16 marzo scorso. Intitolata “Somiglia, ecco tutto, la cartella uscirà a settembre 2014 in 90 esemplari numerati e firmati, in un elegante cofanetto. Di questi, solo 70 esemplari in numeri arabi saranno destinati ai soci Pacchetto Completo (in regola coi versamenti 2014).

Come sempre fuori commercio, ci è possibile realizzare anche questa cartella soprattutto grazie alla generosissima collaborazione di 4 artisti, che - al pari di chi li ha preceduti nelle altre edizioni- hanno aderito, realizzando su commessa queste incisioni, rinunciando al compenso delle rispettive lastre, in omaggio alla memoria del loro amico Leonardo Sciascia.  La cessione della cartella a chiunque rinnovi o aderisca per quest’anno agli Amici di Sciascia come Pacchetto completo avviene come parte integrante dei servizi previsti dalla quota associativa. Quest’anno però, la cartella vuole replicare il successo di quella, straordinaria, del 2009 “Due cartoline dal mio paese”. Si ritorna dunque all’incisione, dopo la parentesi della fotografia d’autore.

 

La cartella 2014 conterrà però non -come di consueto- una ma ben 4 incisioni sciolte! Proprio per questo motivo il Consiglio Direttivo ha deciso di aumentare una tantum la quota Pacchetto Completo dai tradizionali 300€ a complessivi 600,00 € (300 € relative al rinnovo 2014 più ulteriori 300 € di quota integrativa, da versare o in una sola soluzione oppure in due parti: 150€ all’atto del rinnovo  e 150€ entro giugno 2014).

 

Gli artisti e gli autori che hanno offerto a titolo  gratuito la loro collaborazione sono particolarmente cari allo scrittore di Racalmuto o suoi affezionati estimatori: dagli incisori,Assadour, Rodolfo Ceccotti, Carla Horat e Carla Tolomeo, al poeta Angelo Scandurra e fino allo studioso Francesco Cataluccio, con un saggio scritto appositamente per la cartella 2014 ed ispirato, come l’intera cartella, al celeberrimo saggio di Leonardo Sciascia del 1967 dal titolo L’ordine delle somiglianze. Gli introiti della cessione onerosa di queste cartelle andranno a sostenere il finanziamento di due pubblicazioni (una nel 2014 e l’altra nel 2015). Quella 2014, dal titolo "Sciascia e la Jugoslavia", a cura  di Ricciarda Ricorda, è frutto di un progetto di ricerca lanciato due anni or sono dagli Amici di Sciascia e che vedrà la luce nei prossimi mesi per la casa editrice Leo S. Olschki di Firenze. Offrirà un quadro inedito, con documenti in larga parte ignoti, relativi alle frequentazioni di Leonardo Sciascia con diversi autori in Slovenia, Croazia e Serbia. Analogo metodo di ricerca gli Amici di Sciascia intendono usare per le future ricerche che vorremmo avviare per far luce sui rapporti di Sciascia con le culture di altri paesi, Francia e Spagna in testa.

Ma, non è finita qui !

Il volume  su Sciascia e la Jugoslavia sarà accompagnato, nell’edizione di testa, da una magnifica incisione sciolta di Safet Zec, già vincitore di una delle edizioni del Premio Leonardo Sciascia amateur d’estampes

Al pari della cartella "Somiglia, ecco tutto” con le 4 incisioni, anche l’edizione  di testa di “Sciascia e la Jugoslavia” con l’incisione di  Zec e quella del quarto fascicolo della rivista sciasciana Todomodo, sempre in uscita quest’anno, con un’ altrettanto magistrale  acquaforte, opera di Patrizio di Sciullo (anch’egli tra i vincitori di una delle edizioni del Premio Sciascia) sono tutte e tre già comprese  nella quota di 600,00€ riservata ai soli soci…di un dunque ricchissimo Pacchetto Completo 2014.

Lo sforzo economico straordinario richiesto qui ed ora agli associati Pacchetto Completo per acquisire risorse aggiuntive da destinare al finanziamento di ulteriori pubblicazioni e progetti di ricerca degli Amici di Sciascia  risulta ampiamente compensato perciò  da opere preziose e servizi  di significativo contro-valore artistico per i nostri più convinti sostenitori. Certi di fare cosa gradita a tutti, e in special modo ai collezionisti, La invitiamo a cliccare qui per ammirare una riproduzione delle immagini delle quattro incisioni della sola cartella 2014, nella fiducia che  questa iniziativa possa incontrare l’adesione convinta non solo di  chi già nel 2013 ha fatto fiducia agli Amici di Sciascia, aderendo come  socio Pacchetto Completo, ma di quanti desiderino sostenere l’Associazione e il suo impegno ventennale di promozione libera della  cultura, autofinanziando le iniziative di diffusione e di ricerca intorno all’opera di Leonardo Sciascia.

Grazie per provvedere subito all’adesione o al rinnovo 2014 versando l’importo di 600,00€ in un’unica soluzione o suddividendolo come sopra-accennato. Può farlo tramite bonifico bancario:

Beneficiario: Associazione Amici di Leonardo Sciascia

Causale: Rinnovo adesione Amici Sciascia Pacchetto Completo -anno 2014

Importo: 600,00€ (seicento euro)

IBAN:  IT 21 O 02008 01671 000004594688

(per chiarezza: dopo il numero 21 c'è la lettera O in maiuscolo. Il resto sono numeri)

 

o tramite addebito su carta di credito le cui coordinate potranno essere comunicate all’indirizzo segreteria@amicisciascia.it .

A presto !

Il Segretario 

Albertina Fontana

La foto che gli piaceva di più...

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La foto che gli piaceva di più...

Aderite subito on line agli Amici di Sciascia per il 2014 e verificate la disponibilità!

Nel 1992 la Fondazione L. Sciascia e la Fondazione G. Whitaker decisero di realizzare una mostra fotografica sullo scrittore, morto nel novembre di due anni prima, affidandone a me la cura. Raccolsi lì quelle che considerai le immagini più significative, e fra esse, naturalmente, quella di questa cartella. In molte fotografie lo scrittore è ritratto mentre fuma, ma fra queste l’immagine di Carla De Gregorio ha un posto particolare. È quella che a Sciascia piaceva di più”.

Così Diego Mormorio scrive nel testo associato alla cartella intitolata “Il valore del silenzio” che, diciannovesima della collana OMAGGIO A SCIASCIA, è uscita a settembre 2013 per le consuete cure di Francesco Izzo. Il ritratto in bianco e nero contenuto nella cartella è uno degli scatti domestici realizzati nel gennaio 1985 da Carla De Gregorio a Racalmuto, nella casa di campagna dello scrittore. Alcuni degli scatti furono pubblicati dal settimanale “Epoca” ma non questo, evanescente quanto ricercato e carico di suggestione al punto da avere ispirato il pittore e incisore Agostino Arrivabene a cavarne un disegno prima e un’acquaforte (dal titolo Effluvi düreriani) diventata l’emblema della rivista di studi sciasciani TODOMODO, dove troneggia in copertina.

La fotografia (35 x 27 cm) è stata stampata nel luglio 2013 a Palermo, con la competente supervisione di Enzo Brai, nell’omonimo studio fotografico, su carta Fine Art da 310 grammi, e montata su un cartoncino corolla avorio, di formato 35 x 50 cm. Dei complessivi 90 esemplari numerati e firmati dall’Autrice, 70 sono in numeri arabi riservati ai soci, 15 in numeri romani e 5 HC destinati all’Autrice. Il testo scritto da Diego Mormorio accompagnato da una “Notizia” del curatore ed un profilo biografico dell’Autrice, è stampato da Bandecchi & Vivaldi, a Pontedera.

Come sempre, la cartella - con un esemplare sciolto del ritratto di Sciascia ed il testo di Mormorio- non è in vendita. Essa è invece riservata in esclusiva ai soli soci  in regola coi versamenti agli Amici di Sciascia. Per rinnovare (o aderire per la prima volta agli Amici di Sciascia) è semplice: basta cliccare qui e seguire le semplici indicazioni che permettono on line immediatamente l’adesione con addebito sulla carta di credito. In alternativa è naturalmente sempre possibile regolare il pagamento con un bonifico bancario o un versamento sul conto corrente postale dell’Associazione. In considerazione dell'alto numero di richieste della cartella 2013, si consiglia di verificare la disponibilità degli esemplari rimasti.

Si invitano tutti gli amateurs che volessero assicurarsene un esemplare a scrivere una mail qui e ora a: estampes@amicisciascia.it

Cartella n. 21 - Estate 2015 - Sigfrido Bartolini: "Luna d'inverno"

Cartella n. 22 - Estate 2016 - Haishu Wang: "Così è la rosa!"

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